Borghi di pietra

Nelle terre di “Landolfo da Montelongo” frammenti d’antico intorno a Santa Maria ad Nives

Un pugno di case, assolate dalla calura estiva, ruota  intorno al campanile di Santa Maria ad Nives. Le abitazioni convivono forzatamente con l’eolico selvaggio. Dalla vallata della Tona sottostante, dalle terre di Magliano, insomma da ogni parte, si vede chiaramente come le eliche gigantesche dei pali a dismisura sovrastano i tetti del piccolo agglomerato.

Nell’aria rarefatta si avverte il flusso continuo di un sibilo forte. Senza sosta. Mentre entriamo, sotto la bolla d’afa africana, una volpe ci guarda senza paura. Si ferma. D’istinto poi si dilegua oltre la siepe tra la gialla radura. Qui, davanti al mosaico maiolicato di una crocifissione dai colori vivaci, realizzata dai Bontempo di Francavilla al Mare, regna lo spirito di una tensione ideale. Questa scena divina da “Laudato sie”, solo per un attimo, blocca tutto ciò che da troppo tempo l’uomo fa di male all’ambiente. La voce di questa sensibile percezione sale in alto, delicata e silenziosa. Ci rincuora.

Ritorniamo al reale sotto la cappa rovente di caldo. Proseguiamo su Via delle Fontanelle. Adesso è più chiara la scena graziosa di uno scorcio del paese, che si allunga dolcemente con le sue candide pietre fino alla chiesa di San Rocco, Santo Patrono del paese. E’ stretto il lungo abbraccio col nucleo di case più antiche.  Confermando così il significato della vecchia radice latina. Mons Longus è infatti il toponimo che più volte si  ritrova dopo l’anno Mille nelle varie fonti d’archivio. In questo lontano contesto storico emerge una figura  di spicco, misteriosa, avvolta nelle storie di ieri.

Il personaggio è Landolfo da Montelongo, a cui è intestata un’associazione culturale del luogo. Si tratta di un capitano di ventura del dodicesimo secolo. Abile nelle armi. Condottiero coraggioso al servizio del principe normanno Tancredi nella guerra contro gli Svevi. Di lui si sa ben poco. Va da sè il pensiero alla gloriosa Contea di Loritello. A pochi passi sulle sue ceneri sorse Rotello. Il nome di questo ignoto personaggio sopravvive nelle fonti del Capecelatro. Stranamente, chissà perché, si ritrova anche in narrazioni contemporanee che ho riletto più volte.

Il Vescovo Tria, nella storia della Diocesi di Larino, così descrive Montelongo nel 1744: “Viene posta questa Terra sopra un Monte di aria perfetta, e forse da ciò prese il suo nome, e al di dentro non ha, che una sola strada, che si appella Via Reggia, essendo le case disposte di qua e di là, le quali nella fabbrica non sono disprezzevoli, e mediocremente comode, e vi è anche il Palazzo Baronale. Tutta è circondata da muraglie con porte, sopra due delle quali sono due Torri, una a Occidente, e l’altra a Settentrione”.

Il professor Michele Macchiagodena, storico e ricercatore attento di fonti orali, scritte e materiali, esperto nella conoscenza della fauna e della flora presente nel basso Molise e nelle isole Tremiti, nel corso della visita ci riferisce che sopravvive in loco un’interessante  documentazione materiale. Murati tra gli intonaci del borgo alcuni frammenti d’antico resistono. A partire dalla fine del Settecento molte architetture sono andate perdute.

Durante il periodo di Gioacchino Murat qualcosa di tragico deve essere accaduto in paese, interessato da una terribile ritorsione. Forse a causa dell’uccisione di due soldati francesi, le fortificazioni medievali del borgo sono state completamente abbattute. Diverse iscrizioni, invece, risalenti all’epoca romana narrano le storie più remote. Tra queste, la seguente epigrafe rinvenuta a Piano Saccione, riferita ai sentimenti di una giovanissima coppia, desta curiosità: D.M.S. MAURO QUI VIXIT ANNIS XX PRIMITIVA AMICO CUM QUO VIXIT ANNIS IIII B.M.F.

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Ci aiuta nella traduzione di questa felicissima iscrizione latina il prof. Ubaldo Spina: “D.M.S. (Diis Manibus Sacrum) Ai Sacri Dei Mani (spiriti dei morti divinizzati) A Mauro, che visse vent’anni, Primitiva (dedica) all’amico con il quale convisse quattro anni.  Per benemerenza fece B.M.F. (Bene Merenti Fecit). Si tratta di un’interessante dedica funebre, dove una certa liberta, di nome Primitiva, dopo aver chiesto al proprio  padrone di poter  sistemare tale iscrizione nel luogo dov’è morto il suo amante, si rivolge, appunto, al suo innamorato Mauro, scomparso a vent’anni, con il quale è stato assieme quattro anni. All’età di sedici anni la passione amorosa non si dimentica mai. Una pietra antica, dunque, per fare memoria di un amorevole legame affettivo che non è venuto mai meno. La consacrazione di un amore eterno senza tempo.

Altrettanto curiosa è la storia della statua trecentesca di Santa Maria delle Rose, proveniente dalla grancia benedettina di Santa Maria del Saccione. Si tratta di una preziosissima Madonna lignea tra le più antiche dell’area, probabilmente ricavata da un tronco di  sorbo. Fu rinvenuta casualmente da don Giovanni, parroco dell’epoca, alla fine dell’Ottocento. Mentre percorreva le stradine di Montorio nei Frentani, adiacente ad una vecchia abitazione il sacerdote notò un tronco incavato con forme particolari nella parte convessa, usato come trogolo per animali da cortile. Dopo averlo ribaltato si accorse subito che si trattava di una preziosa scoperta. Guidando un gruppo di visitatori, ricordo di aver visto questa sacra scultura  presso il Museo Civico di Larino quando era malridotta. Dopo varie vicissitudini, a seguito del sisma del 31 ottobre 2002, la bella statua viene restaurata per ritrovare il suo magnifico splendore.

Oggi si conserva presso la parrocchiale di Montorio nei Frentani, in un ambiente sacro di valore. Nel racconto il prof. Macchiagodena ci regala non poche emozioni. Nei pressi del Vico Bora, dove è possibile puntare lo sguardo  fino all’Adriatico,  cresce la voglia di sapere. Come si può vedere dal reportage fotografico colpisce l’immagine di un leone rampante di ignota casata. Mentre un corvo in bassorilievo, alle spalle della parrocchiale, annuncia un’iconografìa altomedievale. Osservando  l’arcata campanaria viene fuori la storia del campanone.

Nel 1943, durante l’occupazione nazifascista, la grossa campana rischiò di scomparire con i suoi rintocchi di gloria. In fretta e furia, con un’azione tempestiva, gli abitanti del quartiere la calarono dall’alto con un sistema di funi  per murarla al piano terra di una casa adiacente, al fine di  evitare che i tedeschi potessero portarla via per sempre. Nel frattempo il latrare dei cani spezza il rumore dei nostri passi. Riecheggia più volte nel silenzio di un vicolo cieco. Si spegne.  Da una facciata rovinata un pigolìo solitario s’invola per ritornare di nuovo. Il racconto prosegue con passione su altre pietre segrete. Tra spiacevoli intonaci, portali di pietra e case da tempo svuotate, per via di un flusso migratorio perpetuo, vibrano nella quiete dei nostri pensieri non poche presenze invisibili. La loro vita reale è lontana. Si pensa al  ritorno di queste famiglie. Sospese nel vuoto  sono presenti a tutti noi.

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