Il cielo fermo, un’angoscia sottile. Poesie rimaste a metà, agli angoli delle strade che sembrano addormentate. L’insidia, nella rarefazione del tempo: il tormento di notti insonni e quello, non meno greve, di giorni troppo lunghi. Coronavirus: radiografia di una stasi. Un grigio incedere ormai allungato come un’ombra dietro i passi di chi ha imparato a vivere questa città da randagio. Fuori per la “caccia”, per (com)missioni da fiato sospeso. Nel mezzo: scarabocchi e spunte su stampati votati al cambiamento perpetuo, confusioni latenti, la patogena sensazione di dover far tutto di fretta.
Ma non dobbiamo abituarci, non possiamo abituarci. Perché l’eccezionalità – sociale, relazionale e amministrativa – della situazione non deve rappresentare la celebrazione di un nuovo “modus vivendi” a tempo indeterminato, né l’anestetico somministrato alla speranza.
Un peccato capitale dimenticare. Che dietro ogni serranda abbassata, dietro ogni azienda chiusa, dietro i lucchetti a ogni bottega, c’è un cuore costretto a sanguinare: è quello di un papà disperato, di una mamma in cassa integrazione; è quello di un giovane disoccupato, incapace di dare tinta al proprio futuro. Intere famiglie sedute attorno a tavole vuote. Non possiamo abituarci, non dobbiamo abituarci.
Nemmeno un mese fa, l’allarme dell’Ufficio Studi della Cgia sulle imprese d’artigianato: dopo il Coronavirus un’azienda su quattro potrebbe chiudere definitivamente. Perché i mancati introiti – 7 miliardi di euro, in termini di perdita di fatturato su scala nazionale – rischieranno di incidere in maniera talmente devastante da strangolare la sussistenza delle attività in questione. Costruzioni, manifattura e servizi alla persona i settori più colpiti. E non va certo meglio ai comparti del tessile e dell’abbigliamento, in procinto di subire il probabile dimezzamento dei ricavi nel 2020: una condizione che potrebbe spingere molti imprenditori – complici i costi di gestione e la pressione fiscale – a gettare inesorabilmente la spugna. Con forti e inevitabili ripercussioni sul mercato degli affitti e sugli indici occupazionali.
Scenari dai connotati apocalittici; estremamente dannosi soprattutto per i piccoli centri, afflitti già da un preoccupante spopolamento.
Ecco perché non bisogna cedere. Nel rispetto delle regole, delle implicazioni dell’emergenza e del buonsenso: bisogna tenere i riflettori puntati sul dramma di molti, sugli incubi e sulle tribolazioni dei nostri fratelli, dei nostri concittadini.
Gli artigiani, i commercianti, i piccoli imprenditori non caratterizzano solamente le maglie del tessuto produttivo regionale: incarnano storie di orgoglio e dignità, di passione e saggezza, di professionalità e abnegazione. Sono linfa e ristoro per la comunità, il lampione ancora acceso su vicoli e marciapiedi che abbiamo imparato ad amare, sul nome delle nostre città. Sono un inno al coraggio. Un premio, per chi ha scelto di restare; una lacrima di rimpianto sul volto di chi invece ha preferito andare.
Non permettiamo che tutto ciò diventi un lusso da ricercare altrove, un‘epopea da raccontare – noi canuti – ai posteri.
Ricordiamocene, pertanto, la prossima volta che passeremo accanto a una ventina spenta, o quando passeggeremo sulle antiche mattonelle del borgo. Ricordiamocene, ora. E la prossima volta che la seduzione dell’e-commerce sfodererà le sue armi migliori. Ricordiamocene. E risorgeremo insieme, più forti di ogni virus. Più forti persino delle nostre debolezze.
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