Luce sul tunnel

Viale Marinai d’Italia e il Porto-Canale di RioVivo: due battaglie in nome della “devastazione”

Una strada osteggiata e infine realizzata (meno male) e un progetto faraonico fallito (per fortuna). Due pagine di storia abbastanza recente che è importante ricordare alla luce della battaglia di oggi incentrata sulla galleria e il parcheggio interrato. Il ruolo dei Comitati civici ambientalisti e dei partiti nell’occasione. Intransigenza e rifiuto del confronto - ieri come oggi - alla base della radicalizzazione di una lotta che sta assumendo contorni ideologici.

A proposito di devastazioni vere o presunte è il caso di rievocare due vicende cadute nel dimenticatoio. La prima ha avuto il suo svolgimento tra l’anno 2000 e 2005 e riguarda una strada; la seconda si è sviluppata dal 1975 al 1982 del Novecento e si riferisce al progetto di un porto-canale.

Viale Marinai d’Italia

C’era una volta (attenzione, non è una favola) una splendida scogliera naturale che incorniciava il tratto costiero che dal molo piccolo (“Banchinella”) giungeva alla spiaggia di Rio Vivo. Sinuoso per una buona metà, quel pezzo di litorale alternava calette sabbiose a pietrose. Superfluo aggiungere come esse d’estate fossero molto desiderate da quanti cercavano angoli più tranquilli e al tempo stesso incantevoli.

I termolesi avevano dato loro anche un nome: la “Marinella”, il “Bagno delle femmine”, “Spiaggetta del campicello”. Lo stesso era avvenuto per gli scogli: del “Coccodrillo”, della “Mallarda”, dei “Cavalli”, delle “Cocciole”. Il paesaggio era ulteriormente arricchito dalla presenza di tre trabucchi, la cui profondità di pesca negli anni Quaranta raggiungeva i tre metri.

Questo incomparabile scenario sopravvive oggi solo nelle rare fotografie d’epoca e nel ricordo di pochi. Nella realtà è sparito da alcuni decenni, letteralmente inghiottito dalla grande quantità di sabbia accumulatasi per effetto degli sciagurati allungamenti dei moli del porto.

Il terreno a monte della scogliera, fino alle grandi arcate dei muraglioni in mattoni faccia vista (eretti negli anni Trenta del Novecento a protezione dei costoni franosi), nel tempo aveva ospitato un piccolo e incavato campo di gioco detto il “campicello”, che dopo ogni acquazzone diventava una piscina; uno spiazzo con la buca per le gare di tiro a piattello e, negli anni Settanta, vicino al Bagno delle femmine, persino un campeggio. Nelle nicchie naturali adiacenti all’odierno cantiere navale alcuni abitanti dei rioni vicini vi custodivano i maiali.

Alla zona si accedeva per mezzo di un sentiero in terra battuta che, tuttavia, s’interrompeva prima di arrivare alla spiaggia di Rio Vivo. Tutto intorno dominavano erbacce, piccole discariche abusive e cessi all’aria aperta. Quando, tra la fine degli anni Novanta e il Duemila, gli amministratori comunali di centrodestra decisero di aprire una strada che da via Corsica arrivasse al porto, la situazione era questa.

Malgrado si trattasse di un intervento modesto rispetto a quello del tunnel, l’agitazione che sin dall’inizio ha condotto contro l’opera il Comitato civico termolese, affiancato da esponenti di altri comitati, è stata non meno tenace e rumorosa di quella attuale. La protesta si basava fondamentalmente sulla seguente argomentazione: l’opera avrebbe «devastato» una zona tra le più belle di Termoli, oltre che «invadere» il parco comunale e «spianato una collinetta».

Il proposito del Comune era quello di alleggerire il notevole traffico in entrata a Termoli proveniente da sud. La strada, inoltre, facilitava non poco la mobilità dai quartieri di via Corsica-Ponte Tamburo, Difesa Grande, Colle Macchiuzzo al centro e viceversa.

Il progetto presentato prevedeva due gallerie di pochi metri lungo la carreggiata e un viadotto i cui piloni poggiavano entro il parco comunale, sotto il cavalcavia della ferrovia Termoli-Foggia, senza che ciò potesse deturpare l’area verde, né comprometterne la funzionalità. Infine, nessun danno al paesaggio poteva causare dal momento che la superba scogliera che l’impreziosiva non esisteva più da tempo e che il resto era solo degrado.

Ciò malgrado, per il Comitato civico e alleati quella strada non s’aveva da fare. Una notevole distanza separava quegl’inflessibili difensori dell’ambiente da qualunque idea nuova e dinamica della città e da quanti si sforzavano di cercare nuove soluzioni per fronteggiare i problemi sorti con l’aumentata mobilità sociale.

Dopo qualche ritardo, nel 2005 la strada era già pronta. Oggi è una delle arterie più utili, se non indispensabili per la città. Il suo innesto al progettato tunnel consentirebbe agli autoveicoli di raggiungere in breve tempo sia il parcheggio interrato di piazza Sant’Antonio, che la spiaggia e la strada per Vasto (quando entrerà in funzione il doppio senso di marcia sul lungomare). Nessun colle è stato «spianato». Laddove ieri la facevano da padrone sporcizia e incuria, vi è ora una passeggiata panoramica, primo tratto di un immaginato percorso costiero pedonale da Termoli a Campomarino.

Si sa da tempo che qualche esponente di primo piano dell’allora Comitato civico, in assenza del temuto impatto negativo dell’opera sui luoghi attraversati e per converso del notevole beneficio apportato al traffico dalla nuova strada, con coraggio e onestà intellettuale ha ammesso di avere «condotto a quel tempo una guerra insensata».All’opposto altri, tra i principali protagonisti di quell’esperienza, sono oggi alla testa della crociata contro il tunnel.

* * *

Il porto-canale di Rio Vivo-Marinelle

All’inizio degli anni 70, con l’arrivo della Fiat nell’area del Consorzio del Nucleo industriale di Rivolta del Re (costituito nel 1967 ad iniziativa di tutti comuni del Basso Molise, ma gestito da Termoli sin dall’inizio), le prospettive di atterraggio di altre industrie si facevano più concrete.

L’anno precedente la ditta Silvestroni di Ravenna aveva iniziato a costruire lo Zuccherificio del Molise e di lì a poco sarebbe entrato in funzione; dopo la Casa torinese, nel 1972 scende a Pantano Basso la Siderurgica Meridionale Antonio Stefana, seguita poi da altri più piccoli insediamenti. Grazie all’esistenza di aree attrezzate, infrastrutture viarie e ferroviarie e, soprattutto, a generose provvidenze e facilitazioni, sia governative che locali, l’appeal esercitato dal Nucleo in quel momento era notevole.

Tutto questo spingeva la classe politica locale Dc (alla quale, tra le tante giuste critiche, va riconosciuto il merito di avere saputo creare le condizioni per convogliare qui cospicui finanziamenti statali e avviare l’industrializzazione di un territorio desideroso di progresso), a immaginare un futuro ancora più radioso per Termoli e il Molise. Più tardi, con la creazione della zona artigianale, la medesima classe politico-amministrativa getterà le basi per uno sviluppo positivo anche di questo settore produttivo. Altro che non avere fatto nulla «per far diventare la piccola città più famosa e importante».

L’idea era quella di realizzare altre infrastrutture da aggiungere a quelle esistenti, per aumentare il traffico delle merci da e per il già attivo Nucleo Industriale e, maggiormente, per calamitare nuovi importanti insediamenti produttivi.

È per questo che nel 1975 il Consorzio affidava «alla società “Sacit” la redazione della variante al PRT (Piano Regolatore Territoriale, ndr) al fine di ricomprendervi il progetto di un nuovo porto, voluto dal presidente del Consorzio Giovanni Di Giandomenico e sostenuto dal presidente del Consiglio regionale Florindo d’Aimmo, fatto redigere a carico della Casmez (Cassa per il Mezzogiorno, ndr) dalla società giapponese Mitsubishi Heavey Industries…».

Si trattava di «… un “porto industriale” da localizzare a tre chilometri da Termoli, per una potenzialità di 9 milioni di tonnellate annue (a fronte di 100mila reali), ad un costo di 260 miliardi, motivando tale scelta (scartando l’ipotesi di un porto costiero e di un’isola a mare) con il fatto che eventuali modifiche allo scalo esistente avrebbero inciso negativamente sul profilo urbano e costiero…».Così riporta l’indimenticato Edilio Petrocelli nel suo prezioso lavoro “Le avventure del porto di Termoli” (Edizioni de Il Bene Comune, 2011).

Il mega progetto comprendeva la realizzazione di un porto-canale di circa un chilometro di lunghezza nell’area di Rio Vivo-Marinelle (a ridosso dell’ansa del Biferno), una diga foranea a mare, un molo di sottoflutto, un canale di accesso profondo più di dieci metri, una darsena con banchine, magazzini, edifici, gru, svincoli, oltre a raccordi stradali e ferroviari.

Un’opera che, se realizzata, avrebbe inevitabilmente comportato la cancellazione di buona parte delle case di Marinelle, nate abusivamente nel tempo per necessità, e, con esse, la distruzione delle minuscole attività orticole disseminate in quell’area fertilissima (in precedenza e per anni era stata discarica comunale), che rappresentavano l’unica fonte di sostentamento della popolazione residente. Inoltre, avrebbe dato un colpo mortale anche al nascente turismo balneare (all’epoca ancora improvvisato, ma già diffuso) tra Ponte di Pizzo e Rio Vivo.

Compresa l’obiettiva gravità del disegno, gli abitanti di Rio Vivo-Marinelle facevano immediatamente scattare la mobilitazione e la lotta per sventare la minaccia, non senza prima avere cercato ripetutamente un confronto con la controparte. A sostenerli vi era il solo partito comunista. Gli ambientalisti, così come li abbiamo conosciuti, erano ancora di là da venire. Nonostante gli scarsi mezzi di cui disponevano, per mesi daranno del filo da torcere al “principe” di allora e alla maggioranza “bulgara” di consiglieri comunali che lo sostenevano. Risultati però zero.

Una lotta, lo rammento bene, condotta senza il supporto di “carte” ed elaborati tecnici, sedi o parrocchie messe generosamente a disposizione o di giornali che ne avessero amplificato presso l’opinione pubblica le posizioni e le iniziative. Infine con i consiglieri comunali dell’opposizione privi, a differenza di oggi, di quegli strumenti (commissioni, statuto, accesso agli atti, dibattito pubblico e quant’altro) che avessero potuto agevolare l’attività di sindacato e controllo sugli atti dell’amministrazione.

Alla fine del faraonico progetto di porto-canale non si fece più nulla. A farlo saltare, nel 1982, era stato il ministro del Tesoro dell’epoca, il repubblicano Ugo La Malfa, saggio guardiano dei conti pubblici in tempi di spesa allegra. E con il porto di Termoli anche quelli di altre sette località, tra le quali Vasto, facendo risparmiare allo Stato più di 6mila miliardi di lire.

Immaginiamo cosa ne sarebbe oggi di quell’area con la crisi che ha investito in pieno il Nucleo industriale: una landa deserta, hangar, gru e materiali aggrediti dalla ruggine, magazzini e silos vuoti e inservibili. Un’autentica, inutile distruzione di territorio e di risorse evitata. Di più: un delitto.

“Devastazione”

Dall’infuocato dibattito sul tunnel e le altre opere previste dal progetto di riqualificazione urbana, emerge che un termine è usato più degli altri: devastazione. A cui ovviamente andrebbe incontro la città se il progetto sarà portato a compimento. A volte per capire meglio il significato delle parole ho l’abitudine di ricorrere al vocabolario. L’ho fatto anche in questa occasione.

Così leggo che per Garzanti significa: distruzione, rovina; per De Mauro: distruggere saccheggiando, distruggere completamente, deturpare; per Hoepli: rovinare con furia, distruggere con violenza; per Treccani: rovinare, guastare con saccheggi e distruzione; per Sabatini Coletti: distruzione di ampie proporzioni. E si potrebbe continuare senza che la sostanza cambi.

Ora si provi a riflettere senza pregiudizio: c’è qualcosa nel progetto dell’Amministrazione che somigli, anche vagamente, a una distruzione violenta del territorio?

Sondaggi

Due sondaggi online promossi negli ultimi mesi hanno «premiato» nettamente il progetto dell’Amministrazione comunale del tunnel e opere annesse. So bene che entrambi non hanno carattere scientifico, ma sono pur sempre indicatori dell’orientamento di una parte di cittadini. La cui opinione non è saggio liquidare sprezzantemente quando non collima con la propria, com’è stato fatto.

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