Storia dell'ue

Quando l’Europa stupiva il mondo nei ricordi di un cronista

Il 1978 fu per l’Italia un annus horribilis: il 9 maggio Aldo Moro è assassinato dalle BR; il 15 giugno il presidente della Repubblica Leone è costretto a dimettersi; Giulio Andreotti guida un Governo di solidarietà nazionale che si regge grazie alla famosa “non sfiducia” del Pci.

A Brema si apre uno storico vertice europeo in cui è in ballo il Sistema Monetario Europeo (SME), prodromo dell’Euro. Il ministro degli esteri tedesco Genscher riunisce i colleghi (per l’Italia c’è Forlani) e ad evitare resipiscenze politiche, va subito al cuore del problema: “Rovesciamo i termini – dice – chi è contrario dimostri che senso ha mantenere in Europa una dozzina di monete diverse”.

Il Governo italiano gode di uno staff tecnico di prim’ordine guidato dal governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi, uomo di grandi capacità e doti morali, mentre i cosiddetti “sherpa” (diplomatici che studiano, preparano e smussano dossier e documenti finali) hanno a capo un napoletano di ferro, Renato Ruggiero.
Si discute del famoso “serpentone”, cioè una griglia di fluttuazione valutaria. Chi non ne rispetta i parametri deve uscirne, come avvenne allo scoppio della crisi petrolifera alla lira ma anche alla sterlina e al franco francese. Ma infine, dopo vari aggiustamenti, si guarda all’Europa monetaria come trampolino di lancio per l’Europa politica.

La trattativa fu quanto mai ardua e complessa. Ma la vera svolta arriva a Maastricht all’una di notte del 12 dicembre 1991, quando i capi di Stato e di Governo annunciano l’accordo sul Trattato dell’Unione economica e monetaria.

Noi giornalisti asserragliati da oltre quindici ore in un mega centro congressi, avevamo già pronti attacchi di pezzi che davano per scontato un fallimento, tanto che l’annuncio fu accolto con diffidente incredulità. Specie per noi italiani, il cui incubo era quel parametro-spauracchio sul rapporto tra debito e Pil che tendeva ad escluderci in partenza. Si seppe poi che nella notte di Maastricht Guido Carli, mitico ministro del Tesoro, si era battuto come un leone per smussare gli angoli di quel parametro.

L’Italia dovette comunque affrontare gli “esami di ammissione” e altri “mal di pancia” (che, per inciso, noi giornalisti soffrimmo davvero per un cibo avariato servito al buffet stampa di Maastricht che valse alla cittadina olandese il vendicativo epiteto di “Gaastricht”).

Si pensi però alla Francia che associava il franco alla sua grandeur, alla Germania che rinunciò al marco, orgoglio nazionale e simbolo della sua potenza. E pure agli inglesi impazziti all’idea di perdere la sterlina.

L’integrazione europea è sempre progredita tra frenate e marce indietro, riflesso di due persistenti culture politiche, concordi sugli obbiettivi economici e sociali ma discordi tra un federalismo fautore della sovra-nazionalità e un conservatorismo assertore delle nazionalità. Due anime, una federalista e l’altra “intergovernativa”, che le mediazioni non riescono a comporre.

Ricordo i famigerati “montanti compensativi” e i ritornelli della signora Thatcher I want my money back. E l’indignato Giovanni Spadolini che protesta: “Ah questa Europa dei granducati!” E il grande Jacques Delors che confida al Figaro: “Guai se gli Stati cominciano a litigare come mercanti di tappeti”.

Ci ripenso sempre, ma cara Europa ti amo troppo per odiarti.

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