Campobasso

La favola triste dell’ex Romagnoli: da tempio della gloria a monumento dell’abbandono

Più volte al centro di “fantasiosi” progetti di recupero e valorizzazione, l’antico campo da calcio sembra ormai un gigante immobile. Teatro del “Lupo” negli anni d’oro, ospita oggi i ragazzi del rugby (che pure meriterebbero una struttura più funzionale) oltre ad aver fatto da cornice per qualche sporadica apparizione del Campobasso di mister Cudini. Delle innumerevoli promesse vomitate dalle tribune politiche nel corso degli anni, rigorosamente in tempi di campagna elettorale, poco o nulla resta. Uno schiaffo ai ricordi e alla storia di questa città.

Dove muore la sera, dove cadono i giorni. Dove il vento soffia, leggero, tra immagini e fiabe dimenticate. Buio, epitaffi, nostalgia: una foto sbiadita, lampi su ricordi d’oro. Il peso del silenzio. E quello di programmazioni farlocche, di promesse elettorali degeneri; bugie in maschera. Campobasso: il “vecchio Romagnoli” è un gigante immobile, un re caduto in disgrazia, un esiliato in patria, un condannato. 

Amarezza e distacco. Gradinate affacciate sul nulla, un teatro vuoto per fantasmi soli.

Eppure, su quella terra aspra e sgualcita, verdeggiante a tratti, sembrano correre adesso invisibili i ricordi. Il calcio che conta, le glorie accarezzate. E poi l’epopea di un tramonto comunque ricco di grazia: generazioni illuminate dai sogni a serpeggiare col pallone tra coni fluorescenti, speranze lucide e ginocchia sbucciate sotto i vigili occhi di genitori troppo spesso apprensivi. E di maestri sapienti: D’Alessandro, Maestripieri, Michele Scorrano. Già, Michele Scorrano. E quel pulmino bianco opaco, più forte di ruggini e ammaccature, carico di ragazzi all’arrembaggio del campo.

Ripetute, fartlek, tecnica individuale, gradoni; l’afa e la sete. Poi gli inverni: gambe stanche tra le neve, le docce con l’acqua calda in ritardo. E quello spogliatoio-bunker, il rumore dei tacchetti sulla rampa d’accesso, l’emozione trattenuta a fatica. Il fascino sublime della tensione, la partita della domenica mattina. I lividi, le borracce vuote, le gomitate dei difensori avversari. La delusione e l’orgoglio, polemiche e fango. Un gol a volo sotto la pioggia e una bandierina presa a calci. Le vittorie e le sconfitte, lealtà e coraggio, amicizie sincere. Il gelato da “Brisotti” con la tuta di rappresentanza, i legami, la fatica, il tempo che non ritorna: bellezza, grandine sul cuore. L’amore per questa città. Le volte che ho pianto. Ma adesso tutto così lontano, così distante.

Perché quel rettangolo verde è diventato nel frattempo l’emblema dell’incompiuto, il simulacro di una valorizzazione impalpabile, di qualcosa ch’é andato storto; terribilmente storto. Le chiacchiere volate via in fretta dalle tribune politiche nel corso degli anni hanno dunque oggi il sapore del tradimento, della superficialità, di una inguaribile quanto goffa tendenza all’approssimazione.

Un mega-parcheggio, una bretella stradale di collegamento, un parco e altre ipotesi di fantasia: balle nucleari, con l’ “aggravante” dell’ormai stucchevole questione dell’ex Roxy sul groppone. Un colossale festival di progettucoli più o meno campati in aria, di cui restano soltanto scartoffie, bozzetti su carta straccia. Ciarle, aria fritta. Cibo rapido da dare in pasto a conferenze frettolose e addetti stampa annoiati. Una depravazione gattopardesca.

Ma più in là delle transenne, delle ataviche inagibilità, delle fandonie di circostanza e di qualche ameno rigurgito di progettualità saltato fuori di tanto in tanto, sulla vicenda dell’antico campo resta alta, altissima, la nebbia dell’immobilismo. E se non fosse per i ragazzi del rugby (che pure meriterebbero, appunto, una struttura decisamente più funzionale e moderna) come per qualche sporadico allenamento del Campobasso di mister Cudini, quel glorioso manto sarebbe ineluttabilmente destinato all’oblio.

O forse no. Perché in fondo c’è ancora chi è capace di scrutare in quell’arena il silenzioso teatro di sogni perduti, lo scrigno di fiabe fortissimamente volute. In fondo c’è ancora chi è in grado di raccontare a quell’amico antico, lungo la strada che riporta a casa, i bagliori di certi segreti notturni. Quando la risacca del tempo riporta a galla memorie, gonfiando il cuore di lacrime e poesie. Quando la solitudine è una preghiera. Quando muore la sera, quando cadono i giorni.

 

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