Lo sguardo di roberta morrone

La festa e l’identità tradita. Ecco perché non amo San Basso

afFondo/11 - La religiosa festività di San Basso, rito collettivo e identitario per i termolesi, diventa occasione per offendere chi non è del luogo (i giovani festeggiano al grido di ‘cambuasciano pezzo di merda’) e tutto ciò mi ricorda perché, sebbene nativa di qui, io non condivida il senso di appartenenza a questa città e non abbia voglia di prendere parte alla sua festa

Io, termolese che non ama San Basso. Questo articolo sarà tutt’altro che popolare, ne sono consapevole. Non lo sarà in special modo tra i termolesi, quelli che si autodefiniscono ‘veraci’, ‘doc’ o simili e che non gradiranno affatto leggere l’opinione di chi non la pensa come loro. Nel migliore dei casi verrò additata come una termolese guastafeste.

So che scrivere su un giornale mi dà diritto a certe ‘licenze’ che non tutti hanno, sebbene oggi chiunque abbia ‘carta bianca’ nello scrivere qualunque cosa gli passi per la mente. E allora mi prendo anch’io il diritto di dire ‘blasfemamente’ che non amo San Basso o, correggendo il tiro e per dirla più precisamente, che non amo i festeggiamenti in onore del Santo patrono termolese.

Scrivo questo articolo sulla spinta emotiva che mi deriva dall’aver visto un video in cui i giovani termolesi, ritrovatisi al porto dopo la – fugace, quest’anno – traversata in barca del Santo, festeggiano al grido di “Cambuasciano pezzo di merda”.

Che dire? La festa che dovrebbe celebrare l’appartenenza alla città, il sentimento religioso per il patrono, in definitiva l’identità dei miei concittadini, non fa che trasformarsi in un party alcolico in cui si rigurgita un odio insensato per i corregionali macchiatisi della colpa – involontaria – di non essere nati qui. Riducendo così una solenne festivita e una suggestiva tradizione ad una sterile guerra tra bande/città.

ragazzi al porto San Basso

Lo dico pubblicamente: non sono particolarmente legata a questa città o perlomeno ciò non si evince guardando ai tratti distintivi, quelli ‘tangibili’ e visibili, a partire dall’uso del dialetto che ahimè non conosco. Da anni nei giorni dedicati alla festività patronale non metto piede nel centro della mia città e non partecipo alla processione in mare. Lo faccio proprio perché osservare da vicino ‘quei’ festeggiamenti marcherebbe – o lo renderebbe solo palese – un solco profondissimo tra me e gli altri. Il perché, non me ne vogliate, risiede nel fatto che io non sento ‘mia’ quella festa. Nessuna emozione a fior di pelle, nessun desiderio di salire a bordo di un peschereccio, nessun anelito alla partecipazione condivisa ad un momento importante per la mia città.

Sarà perché i miei genitori non sono termolesi, sarà perché nessuno mi ha mai portato da piccola in barca o anche solo al porto, sarà che nessun sentimento religioso mi anima, sarà che non amo la confusione, sarà… Non ha importanza, fatto è che non mi entusiasma nulla di quello che i termolesi dicono di amare. Beninteso, non metto in dubbio che per molti sia realmente così e ‘invidio’ chi riesce a sentir propri riti collettivi che cementificano le radici e l’amore per il proprio territorio. Ma siamo proprio sicuri che sia questo lo spirito della festa, in specie per le giovani generazioni termolesi?

Per motivi anagrafici non ho potuto vivere le processioni in mare di qualche decennio fa ma ho l’impressione che quelle dei nostri giorni siano ben altra cosa. I pescatori che accolgono sulle proprie barche chiunque voglia rendere omaggio alla tradizione reificano un gesto nobilissimo e dal significato pregnante. Portare avanti una tradizione come questa è cosa importantissima ma temo che per molti giovani il tutto si trasformi in occasione per ubriacarsi, far baldoria e nulla di più, andando a svuotare di senso i rituali su cui si è costruita la ‘termolesità’.

Il mio legame con la termolesità è forse blando, per i motivi di cui sopra. Probabilmente l’identità in me si è costruita facendo leva su altre corde che travalicano i confini comunali. Ci sarà in me, da qualche parte, anche il legame con questa terra e con tutto ciò di cui è stata ‘innaffiata’, ma non è nei giorni di San Basso che io ne trovi traccia.

«L’armonia nascosta è più forte di quella visibile» scriveva Eraclito. Mi ha sempre colpito questa frase e guarda caso mi torna a mente proprio ora. Forse le mie radici e la mia armonia con questa città, seppur poco visibili, ci sono eccome però sono nascoste e non ostentate sulla pubblica via (che in questo caso sarebbe il porto). Quello che credo è che la presunta termolesità di chi, alle 8 di ogni 3 agosto, si reca sulla banchina dello scalo termolese per salire su un peschereccio, accompagnando così la simbolica traversata di San Basso e omaggiandolo, sia per taluni tutta da dimostrare. Di più, credo che i ragazzi che, complice (?) una birra tra le mani, si sono lasciati andare a vergognosi canti contro il nemico-campobassano abbiano un’identità davvero fragile.

L’identità purtroppo sì costruisce anche attraverso la logica del Noi-Loro. E la nostra provincialissima realtà locale in questo senso non è che un piccolo specchietto di ciò che succede anche altrove. D’altra parte mi domando se, nel giorno della festa campobassana dei Misteri, i giovani del capoluogo facciano lo stesso insultando i coetanei della costa. O se facciano così i ragazzi di Jelsi durante la Festa del Grano, quelli di Agnone nei giorni della Ndocciata e via discorrendo. Non credo ciò avvenga e la mia superficiale (quella che mi viene alla superficie) spiegazione è che probabilmente l’aura di città di cui Termoli si ammanta non fa che nascondere le sue piccole miserie.

Un controsenso, perché le città portuali hanno una naturale vocazione ad accogliere chi viene dal mare e non solo. Termoli d’altronde è un meticciato perché ben pochi sono i suoi abitanti autoctoni da generazioni. Nonostante ciò, la cittadina a metà strada tra Abruzzo e Puglia per i suoi ‘figli’ pare essere il centro del mondo tanto da vituperare chi non ha avuto i natali qui. Ciò che si è consumato nei pressi del bar del porto, e che probabilmente si reitera anno dopo anno, ha del paradossale in una giornata che dovrebbe essere informata da fede e devozione. O forse i termolesi sono devoti solo a se stessi?

Mentre le autorità religiose il 3 agosto 2019 in quel di Termoli auspicavano ad aprire i porti – condizione reale ma altresì metaforica di un’apertura all’altro – coloro che dovrebbero costituire il futuro di questo luogo si incitavano vicendevolmente alla chiusura e all’odio. Allargando il campo, potremmo dire che si stavano auto-confinando in un ristrettissimo orizzonte mentale i cui frutti saranno una desolante povertà di spirito e la meschinità più bieca.

Sentendo quelle grida – espresse in un contesto che, a dir di tutti, è di festa, di gioia collettiva e di esaltazione della tradizione – mi è venuto in mente di vivere in una città che si sente grande ma che si rivela essere profondamente piccola. E che riesce a tradire ciò che di bello ha.

commenta