Senso/6

Ricordate i genitori degli anni ’80 e il kit contro la noia?

In quegli anni si diventava genitori con lo sguardo rivolto ad Ovest, affascinati dall’elezione presidenziale negli Stati Uniti di Ronald Reagan, o ad Est, a inseguire l’ascesa politica di Michail Gorbačëv che, eletto Segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica nel ‘81, dopo 5 anni, annunciava la "perestrojka", con un programma di radicale rinnovamento dell’economia e della società sovietica. Ma quelli erano anche gli anni dell’attentato alla stazione di Bologna che causò la morte di 85 persone con oltre 200 feriti, il più grave attentato nella storia della Repubblica Italiana: si ascoltava la televisione e se ne parlava a tavola, anche con i figli, perché quelli erano eventi eccezionali e assurdi, e i figli dovevano sapere, dovevano conoscere la differenza tra la vita e la morte, tra l’amore e la violenza, tra il bianco e il nero…

Ascoltiamo e leggiamo spesso di genitorialità negativa, spesso sull’onda emotiva di eventi, pubblici o privati, che ci scuotono, risvegliando la consapevolezza di quanto profondamente distanti siamo dalle immagini che frequentano la nostra memoria biografica. Il confronto con l’Ombra, in questi casi, si fa acuto di fronte alle problematiche, a volte incomprensibili, dei figli.E’ il confronto con la nostra parte di personalità più inaccettabile, quella che – Jung diceva – mai vorremmo esporre allo sguardo, che può risultarci talvolta indiscreto, del nostro Io cosciente; neanche quando, a chiederci di farlo, sono gli insegnanti o il nostro partner o la vita stessa. A volte ci costringono ad un atto di umiltà che, come ricorda il termine, è anche un atto di rinuncia alle certezze acquisite: e dobbiamo, allora, riconoscere che “sì, gli anni ’80 sono stati forse l’ultima fase positiva di una genitorialità che oggi non sembriamo poter più incarnare”.

E il nostro dialogo con l’Ombra ci riporta a quegli anni, gli anni della ripresa economica di un Paese che stava assumendo ormai i tratti maturi di un paese industrializzato.E come l’Italia, anche il Molise, in particolare la zona costiera, era ricca di cantieri, di quartieri nuovi che sorgevano sul suolo di ulivi sradicati delle periferie, e di industrie e aziende che a Termoli, ad esempio, nascevano – sincronisticamente – nelle zone note di “pantano basso”: azioni collettive che sembravano pontificare un passaggio ascensionale da un’economia prevalentemente agricola, arcaica, rigidamente fissata a riti secolari, ad una centrata sul potente dinamismo della produzione industriale.

E a Termoli arrivavano le giovani coppie, con i figli appresso, dai paesi dell’hinterland molisano e qui si stabilivano, appena dopo le nozze, per avviare la realizzazione di un riscatto sociale che faceva, anche qui da noi, eco alla rinascita dell’Italia.

In quegli anni si diventava genitori con lo sguardo rivolto ad Ovest, affascinati dall’elezione presidenziale negli Stati Uniti di Ronald Reagan, o ad Est, a inseguire l’ascesa politica di Michail Gorbačëv che, eletto Segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica nel ‘81, dopo 5 anni, annunciava la “perestrojka”, con un programma di radicale rinnovamento dell’economia e della società sovietica. Ma quelli erano anche gli anni dell’attentato alla stazione di Bologna che causò la morte di 85 persone con oltre 200 feriti, il più grave attentato nella storia della Repubblica Italiana: si ascoltava la televisione e se ne parlava a tavola, anche con i figli, perché quelli erano eventi eccezionali e assurdi, e i figli dovevano sapere, dovevano conoscere la differenza tra la vita e la morte, tra l’amore e la violenza, tra il bianco e il nero.

Perché quelli erano anche gli anni del papa più amato, Giovanni Paolo II, che in quegli stessi anni veniva gravemente ferito in un altro attentato terroristico, mentre salutava la folla in piazza San Pietro. Le immagini dell’attentato sono impresse ancora oggi nella nostra memoria collettiva. Il papa che un giorno era atterrato anche a Termoli e i bambini, accompagnati dai genitori, erano tutti lì a salutarlo con le bandierine bianche, sentendosi figli di una genitorialità amplificata, quel giorno, dalla gestualità semplice di un uomo arrivato dal cielo con un grande elicottero bianco.

Nel ‘86, noi eravamo alle scuole elementari o ai primi anni delle scuole medie, quando tornati a casa, abbiamo trovato le nostre madri a dirci che da quel giorno non avremmo più mangiato frutta e verdura e altri prodotti potenzialmente contaminati, perché la RAI aveva informato dell’esplosione di un reattore nucleare a Černobyl, avvenuta nell’aprile dello stesso anno. Nelle aree limitrofe – lo ricorderete – il disastro aveva provocato migliaia di morti per cause legate direttamente o indirettamente alle radiazioni, oltre che pesantissimi danni all’economia e all’agricoltura. Nei mesi successivi la “nube radioattiva” invase tutta l’Europa. Noi bambini sentivamo la preoccupazione dei grandi, ma loro erano genitori solleciti, attivi, ci guardavano e, senza parlare, ci rassicuravano perché avevano quella reattività emozionale rapida, prevedibile che, come uno scudo invisibile, ci faceva sentire Černobyl molto lontana.

Lo spirito del tempo era pervaso di ottimismo, nonostante tutto: lo storico incontro a Mosca fra Reagan e Gorbačëv del ’88 grazie al quale i rapporti fra le due superpotenze iniziavano a distendersi, aveva inaugurato la caduta dei regimi comunisti e l’anno dopo, il 9 novembre, il Muro di Berlino cadeva segnando la fine della guerra fredda. Gli eventi collettivi oscillavano in quegli anni tra il bene e il male, tra la disperazione e la fiducia. E i film d’azione hollywoodiani proponevano, con uno straordinario successo planetario, eroi positivi incarnati da attori di culto come Schwarzenegger e Stallone.

Sarà stato per tutto questo che la musica degli anni ‘80 trasmetteva anche una carica emotiva positivae – permettetemi di dire – antidepressiva. Erano gli anni in cui i padri si sintonizzavano con l’autoradio sui Duran Duran, Michael Jackson, Madonna e gli Europe mentre i figli, ormai adolescenti, cominciavano – non senza insospettirli – ad ascoltare gli esordienti di musica Rap e Hip-hop, musica di strada, diversa, che evocava il preludio di una generazione che stava già cambiando, troppo velocemente. Ma erano ancora gli anni in cui le mamme le vedevi alla finestra ad osservare le figlie impegnate, nel cortile di casa, al gioco con l’elastico e del nascondino, della palla avvelenata e della campana, e i figli a imitare Platinì, Maradona, Baresi o Dino Zoff con le porte improvvisate da due sassi pescati là, tra i vari oggetti del “kit di sopravvivenza alla noia” che, utilizzato da tutti i bambini del quartiere come una risorsa comunitaria, insegnava a sognare.

Le sfide educative che i genitori si trovavano allora ad affrontare erano diverse: il conflitto centrale coinvolgeva la coscienza, il senso di colpa, il conflitto tra le regole (ben dette) e le “pulsioni” giovanili: “stai attento ai quei ragazzi”, “stai sempre con le ragazze della tua età”, e ti dovevi ricordare che la droga esisteva ed era il limite assoluto, da non trasgredire mai. Perché la droga faceva morire allora, o faceva impazzire ma, soprattutto, bruciava i sogni, i sogni che tutti potevamo realizzare, col tempo e con la dedizione, e soprattutto con quel “kit di sopravvivenza alla noia” che ci portavamo dietro ovunque, perché ci avevano insegnato che a sognare ci si annoia tanto, nell’attesa della realizzazione.

Oggi, invece, la nostra attenzione la rivolgiamo spesso alle possibilità di realizzazione immediata dei giovani, e quindi alle competenze necessarie e all’evitamento di qualsiasi sofferenza, qualsiasi attesa frustrante. E ci diciamo che gli studi si sono allungati, gli sbocchi professionali sono difficili, la società non dà grande spazio ai nostri figli che, poiché li percepiamo così esposti alle difficoltà, tendiamo a trattenerli sotto l’ala protettiva dell’accondiscendenza, dell’accettazione incondizionata, dell’intimità che annulla le distanze generazionali e – direi – “generative” di identità distinte, di personalità autonome. Perché i genitori sono genitori e i figli e gli amici dovrebbero essere “altra cosa”. Troppo spesso abbiamo paura di entrare in contrasto con loro e preferiamo essere amati, essere coccolati piuttosto che mantenere una nostra posizione autonoma e autorevole.

Forse eravamo troppo piccoli per capire l’importanza che ha avuto il confronto tra Reagan e Gorbačëv per il mondo intero: forse i nostri insegnanti o i nostri stessi genitori non sono stati in grado di farci comprendere come, solo nella diversità dei punti di vista, ci si apre ad una sana contrattazione. Non va contrattata certamente la personalità dei figli ma i limiti e le concessioni sì, quelle vanno negoziate, perché altrimenti la “guerra fredda” la ricreiamo noi in casa.

Quante contrapposizioni si creano oggi tra le mura domestiche con sfere di influenza dei figli sul funzionamento familiare e formazioni di blocchi ostili sempre più dominanti contro i limiti e le convenzioni sociali. Jung ammoniva che “l’individuazione non esclude il mondo”: l’individuo, perché possa trovare se stesso, non deve erigere muri col mondo. Altrimenti la divisione tra l’individuo e il mondo sociale influenzerà fortemente lo sviluppo della personalità, con una “cortina di ferro” che cadrà sopra un enorme territorio controllato dal Narcisismo e dai sentimenti di onnipotenza, a causa dei quali l’affettività e il suo insito potere creativo verrebbero neutralizzati.

Oggi priviamo i bambini delle basi per un’infanzia sana: genitori emotivamente presenti, limiti ben definiti e guide stabili, responsabilità, alimentazione equilibrata e numero adeguato di ore di sonno, movimento e vita all’aria aperta, gioco creativo, interazioni sociali, opportunità di avere del tempo libero e momenti di noia. E così ce li ritroviamo appiattiti tra le proprie basse aspettative e la rassegnazione, da una parte, e il massimo successo di alcune persone, i VIP, dall’altra. E la loro vita oggi inizia come quando iniziamo a cucinare senza sapere cosa dobbiamo cucinare: prendiamo ingredienti a caso, li mettiamo insieme, e il risultato può essere un inaspettato e fortunato successo oppure un piatto immangiabile.

Bene, dunque, il monito dell’American Psychological Association che ci fa notare che effettivamente i nostri figli sono colpiti un po’ ovunque da disturbi d’ansia che implicano anche peggior rendimento formativo e lavorativo, scadente prestazione accademica, con una ricaduta anche sulle relazioni interpersonali. Bene, allora, se la musica degli anni ’80 ci attrae ancora potentemente perché quella “bellezza”, risuonandoci dentro, potrebbe risvegliare un’affettività che attende da decenni di essere risvegliata, anche a costo di un confronto difficile con l’Ombra.

commenta