Cosa fa la differenza

“Sono milanese, madre di un figlio drogato. Ho letto come la vostra Procura combatte questo inferno. Aiutatemi”

Dopo un nostro articolo che le è capitato tra le mani e che raccontava la scelta di una mamma della provincia di Campobasso di spedire il figlio in carcere per tirarlo fuori dalla tossicodipendenza, questa donna del lodigiano, che vive lo stesso incubo, ha scelto di chiedere soccorso al Molise

Quando la collega Roberta mi dice che sul telefono di redazione è arrivato il messaggio di una mamma della provincia di Milano che chiede di parlare con me perché casualmente aveva letto l’articolo del 24 dicembre scorso che raccontava delle tribolazioni di una donna molisana costretta a spedire il figlio in carcere per “salvarlo dalla droga”, ho pensato subito: “Milano? Cosa vorrà mai una madre di Milano da un articolo che riguarda una guerra tutta molisana?”. A Roberta chiedo di inoltrarmi il messaggio e le dico che me ne sarei occupata appena possibile.

“Buongiorno, mi chiamo (…) abito in provincia di Milano – è il messaggio -. Avrei voluto scrivere una lettera al Vostro direttore. Mi chiedevo se fosse possibile un contatto telefonico con voi. So che come noi siete in piena emergenza coronavirus ma spero troviate il tempo di esaudire questa mia richiesta. Vi anticipo che mi ha indotto contattarvi un vostro articolo che ho trovato casualmente in rete ‘Strazio e coraggio di una madre che ha denunciato il figlio: meglio in carcere che drogato’. Vi lascio i miei recapiti. Grazie”.

Persiste la mia perplessità: dieci righe che fanno riferimento all’incubo di una famiglia molisana, cosa potrà mai volere questa donna della provincia milanese? Trascorre qualche ora ma il pensiero torna sempre a quella richiesta. Entro ed esco da WhatsApp, leggo e rileggo quel messaggio, alla fine cedo: la chiamo subito.

Il telefono squilla quasi fino alla fine e stavo per mettere giù quando dall’altro capo del telefono risponde una voce delicata e garbata. Mi presento, lei capisce subito, ha un sussulto di gioia e riconoscenza: “Grazie per il tempo che avete deciso di spendere per me”.

Non riesco neanche a chiederle il motivo e il significato di quel messaggio perché lei inizia subito il suo racconto. Ha sete di parlare e confessare. Di urlare ed essere ascoltata “perché qui, è tutto così complesso”.

Veronica (la chiameremo così) è la madre di un figlio di soli 20 anni che si droga da quando ne aveva 15. Eroina, cocaina, anfetamine, “ha provato e consuma tuttora, di tutto”.

Anche lui un bel ragazzo, alto, occhi cerulei, appassionato di libri e culture internazionali, ha iniziato a spezzare i suoi sogni  “tra cui quello di girare il mondo e di fare l’ambasciatore” con il primo spinello. Il passo verso la cocaina è stato breve. E quindi un incubo che dura da oltre cinque anni. Veronica è una madre sola, separata da un marito che il problema del figlio non l’accetta tuttora, è una professionista affermata che in questa sua battaglia è stata continuamente messa all’angolo da tutte le autorità preposte a salvare il suo ragazzo. Suo figlio ha tre denunce per furto: ha rubato in casa dei nonni, del padre e anche a casa della mamma. Ma l’udienza si terrà ad ottobre “e io temo che, per come sta, ottobre sia tardi”.

Vent’anni, tossicodipendente, affetto da anoressia nervosa, aveva lunghi capelli che ora ha perso. Si è trasformato nell’anima e nel volto. La droga lo ha cambiato in tutto. Vive soltanto per cercare la dose, frequenta gente che può soltanto dargli la droga, scappa di casa quando lei si rifiuta di dargli il denaro, dorme per strada come un barbone. Veronica lo riprende sotto il suo tetto, ci riprova ogni giorno, ma lui le mente e la manipola. Continua a rubarle denaro e a drogarsi. Diventa violento se lei si oppone. Un incubo che l’ha risucchiata in un vortice infernale da quale non riesce ad uscire e soprattutto non riesce a tirar fuori suo figlio.

Come posso aiutarla? Mi chiedo. Lei ancor prima che io le formuli la domanda, esordisce: “Ma in Molise la Procura e le forze dell’ordine come aiutano le mamme come me?”. Le spiego allora il problema del consumo di droga in provincia di Campobasso e quindi della mobilitazione della Procura in una guerra che non ha escluso nessuno.

“Ma questa madre di cui lei scrive – dice citando ancora l’articolo – ha messo in atto un’azione d’urto dopo che la sua storia è stata ascoltata. Qui invece non mi ascoltano. Qui io rappresento il numero di un protocollo. Sono un numero anche per il mio avvocato, come faccio a chiedere attenzione all’autorità giudiziaria?”.

Le racconto come lavora la Procura di Campobasso. Come operano gli agenti della squadra mobile e come i carabinieri. “Qui – le dico – tutto avviene all’interno di una sorta di dichiarazione d’intenti comune che ha come obiettivo non tanto quello di portare in carcere questi figli persi, quanto quello di salvarli e tirarli fuori dal tunnel finché si è in tempo. E se per raggiungere questo obiettivo è necessario il carcere, in Molise inquirenti ed investigatori, insieme alle famiglie, mettono a punto anche un’azione d’urto di questo genere, per poi destinare questi giovanissimi nelle comunità di recupero e sperare che una volta lì ritrovino la vita che stanno perdendo”.

A questo punto dall’altra parte del telefono ascolto i singhiozzi di un pianto strozzato. Veronica ha un attimo di esitazione, poi si riprende “quando qui al Nord spesso dicono che nel Sud dell’Italia c’è arretratezza culturale e per questo vi deridono, oggi so con certezza che invece noi dal Sud non dovremmo fare altro che imparare. Lei – dice Veronica come un fiume piena – mi ha raccontato un modo di lavorare rispetto ad una problematica sociale che alla fine è uguale ovunque, che invece giù da voi è affrontata con tecniche e metodi efficienti ed efficaci. Voi cittadini, in Molise, non siete un numero di protocollo, ma persone. Ecco, qui io non mi sento persona. Ma numero. Non potrei mai salire le scale della procura di Milano e chiedere aiuto ad un giudice, sono sicura mi riderebbe in faccia. Non potrei mai bussare alla porta di una questura perché mi avvierebbero alle pratiche formali. Per salvare mio figlio invece non posso adeguarmi alla forma né attenermi alla consuetudine settentrionale del trattare ogni caso con codici da protocollo. Io non so se voi dal Molise potete aiutarmi ma so con certezza che da voi c’è molto da imparare”. Veronica è stanca di parlare, lo avverto dall’affanno della sua voce. La chiacchierata è stata lunga, faticosa, emotivamente forte.

“Il solo fatto che abbiate ascoltato il mio sfogo – dice – mi ha restituito un po’ di serenità. Perché ho capito che al di là del mio naso ci sono persone che sanno ascoltare. Ho compreso anche che ci sono persone che non operano solo con il badge ma ci mettono il cuore, come fanno i vostri giudici, poliziotti e carabinieri. Io non so se potete aiutarmi. Ma ormai per mio figlio ho fatto di tutto e tento anche questa”.

E io non so se potrò aiutare Veronica. Ma è chiaro che questa adesso è diventata anche un po’ la nostra battaglia. E potrebbe diventare un’altra rivincita (qualora ce ne fosse bisogno) del nostro Molise.

Lo so, è improbabile e impossibile che da qui si possa andare in soccorso di questa madre, però in Molise lavoriamo col cuore e non solo con raziocinio freddo e programmato di chi applica numeri e codici.

Un Sos va, allora, al capo della Procura di Campobasso, Nicola D’Angelo, perché magari più di altri può dare un suggerimento a Veronica e aiutarla. Ma va anche alle nostre associazioni, agli avvocati, a chi lavora nelle questure e nei comandi dei carabinieri.

Veronica ci ha lasciato tutti i recapiti, appesi ad una speranza che lei ha letto nel Molise, nelle competenze dei professionisti molisani, e in cuore grande così che ci premia ancora.