La più grande fabbrica del Molise sta morendo. Ma nei molisani la rassegnazione ha preso il posto della reazione
Il declino dello stabilimento Stellantis di Termoli è sotto gli occhi di tutti, ma non sembra scuotere l’opinione pubblica. Mentre la multinazionale taglia e investe altrove, e la politica tace, nessuno – né cittadini, né gruppi organizzati – alza la voce. Un silenzio collettivo che rischia di diventare complice.
C’è un fatto che colpisce e preoccupa più della crisi stessa: la sua apparente irrilevanza nell’opinione pubblica molisana.
La più grande fabbrica del Molise sta morendo, e non sembra importare a nessuno. Non quanto dovrebbe, non abbastanza.
Stellantis Termoli – ex Fiat – non è un’azienda qualsiasi. È un pezzo intero di economia, occupazione, storia industriale e sociale, con quasi 2.000 dipendenti diretti, migliaia se si contano l’indotto, le famiglie, le attività collegate.
È un presidio produttivo che dal 1972 ha significato reddito, futuro, orgoglio e talvolta riscatto per un’intera fascia del Molise.
Eppure, mentre la fabbrica si svuota, il futuro si allontana e le promesse svaniscono, il dibattito pubblico langue.
La rassegnazione ha preso il posto della reazione.
Il progetto della Gigafactory, annunciato nel 2022 come svolta green e industriale, è congelato da oltre un anno. Nessun cantiere, nessun piano ufficiale, nessuna certezza.
Intanto, è partita l’uscita incentivata per 200 operai, è stato chiuso il reparto Fire che ha fatto la storia dello stabilimento, e dal 1° settembre tutti i 1.823 dipendenti sono in contratto di solidarietà.
Non si tratta più di allarmi sindacali o previsioni pessimistiche: è cronaca quotidiana.
Eppure, non c’è mobilitazione, non c’è pressione dal basso, non c’è quasi traccia di una reazione collettiva.

Il Molise sembra guardare altrove. I molisani sembrano occupati in altro.
Certo, la sanità è un tema caldo e irrisolto. Ma il dibattito si accende più facilmente sui prezzi dei lidi, l’accesso al mare, i nuovi palazzi a Termoli, i parcheggi che mancano sulla costa, le polemiche sulla raccolta differenziata a Campobasso.
Temi legittimi, certo. Ma il destino della maggiore industria della regione meriterebbe ben altro spazio.
Anche quando il tema arriva sulla stampa nazionale (e in questi giorni è accaduto, visto l’inedito dei contratti di solidarietà in blocco per i lavoratori di Rivolta del Re), la popolazione molisana sembra non porre mai l’argomento al centro delle proprie preoccupazioni.
Nessuna manifestazione, grande o piccola che sia. Nessuna pressione organizzata. Nessun comitato, né mobilitazione creativa o collettiva.
Nemmeno una petizione popolare. Nemmeno una provocazione.
Un silenzio che favorisce la multinazionale e agevola la politica, che prende tempo.
Eppure, basterebbe poco per mostrare che la comunità c’è, che il territorio non si arrende.
Ma neanche sui social – diventati il vero termometro dell’umore pubblico – si è vista una reazione all’altezza.
Anzi: sotto gli articoli che parlano di contratti di solidarietà, di gigafactory scomparsa, di appelli rimasti inascoltati, si leggono commenti sprezzanti, polemiche preconfezionate, attacchi ai sindacati, alla politica, qualche volta agli stessi lavoratori.
Facebook, in particolare, si è trasformato in un’arena di sfogo fine a se stessa, dove abbonda la critica ma manca del tutto la proposta.
Non un gruppo, non un’associazione, non una voce organizzata che abbia lanciato un’iniziativa pubblica, una protesta, una manifestazione simbolica, un’idea per rompere il silenzio. Nemmeno un hashtag.
È come se l’indignazione si consumasse tutta nei commenti, e nessuno si prendesse la responsabilità di fare un passo in più. Ci sono storie che finiscono nel silenzio. E talvolta, quel silenzio fa più rumore di qualunque protesta.
Sta succedendo a Termoli, dove la più grande fabbrica del Molise sta per spegnersi. Lentamente, senza clamori, senza dichiarazioni ufficiali, ma in modo evidente.
Ma, soprattutto, senza che nessuno sembri davvero accorgersene.
I molisani – non il Molise istituzionale, ma i cittadini stessi – sembrano aver archiviato la questione come fosse ineluttabile.
Come se il declino industriale fosse il prezzo naturale da pagare per restare in questa regione.
Come se 1.800 e più posti di lavoro potessero sparire senza conseguenze.
Nel frattempo, Stellantis investe 1,2 miliardi in Marocco, assume 3.100 persone a Kenitra, mentre a Termoli si negozia l’uscita incentivata di centinaia di operai.
Non è questione di campanilismo: è una questione di squilibrio strutturale, di assenza di garanzie, di dismissione di una comunità intera.
La politica resta in silenzio, salvo qualche comunicato di circostanza o interrogazione rimasta senza risposta.
Ma il vero problema è che anche la società civile ha smesso di reagire.
È come se ci fosse un rimosso collettivo, una difesa inconscia davanti a qualcosa di troppo grande, troppo complicato, troppo scoraggiante da affrontare.
E invece è proprio in questi momenti che serve lucidità.
Perché non è solo una questione occupazionale. È una questione di dignità collettiva, di identità, di equità territoriale.
Perdere Stellantis senza reagire significherebbe dire addio a qualunque ambizione industriale.
E accettare, definitivamente, di essere periferia silenziosa e sacrificabile.
La verità è che nessuna multinazionale ha interesse a restare in un territorio che non si fa sentire.
Nessun governo è costretto a intervenire dove non ci sono cittadini che alzano la voce.
E nessuna stampa nazionale racconta una crisi che non trova neanche eco locale.
Se non siamo noi a tenere accesa la luce su ciò che accade, nessun altro lo farà.


