L'intervista di un'alunna

Le cicatrici come dono e la giustizia con scarpe di piombo: la testimonianza di Giuseppe Antoci all’Istituto Alfano

Venerdì 16 dicembre l’ex presidente del parco dei Nebrodi ha incontrato gli alunni delle classi quinte per presentare il suo libro “La mafia dei pascoli” e parlare di lotta contro la mafia.

Per Giuseppe Antoci, dal 2013 al 2018 presidente del Parco dei Nebrodi, quello è «il posto più bello del mondo: chi riesce ad avere alle spalle l’Etna, di fronte i boschi, i laghi, il mare e le isole Eolie, puo’ credere di contemplare il paradiso».

Un paradiso che è diventato scenario del suo inferno, da cui prende le mosse tutta la sua vicenda. Quella dello scontro con una mafia arcaica, meno visibile, ma non per questo meno spietata di quella che siamo abituati a conoscere, legata alla terra, ai grandi latifondi e ai miliardi di aiuti all’agricoltura che riusciva a sottrarre, indisturbata, da decenni all’Unione europea.

«Ogni famiglia mafiosa, invece di fare le rapine o chiedere il pizzo, rischiando di essere arrestata, tranquillamente riceveva bonifici bancari per milioni di euro, fondi pubblici che arrivavano direttamente nei conti correnti. E a rischio zero».

Il meccanismo era molto semplice: più terra avevano, più contributi potevano chiedere all’Europa e, complici le intimidazioni, grazie a gare mono-partecipate e rialzi irrisori, intascare cifre astronomiche per attività mai realizzate.

Partecipavano ai bandi per i finanziamenti europei con terreni che risultavano agricoli e che invece, si è scoperto successivamente, appartenevano a basi NATO o facevano parte di una pista dell’aeroporto di Trapani, addirittura di parcheggi di supermercati. Un sistema che si era allargato alla gran parte della Sicilia, reso possibile da una norma che alle società, per avanzare le candidature, richiedeva una semplice autocertificazione antimafia: bastava insomma che il mafioso dicesse di non essere mafioso e tutto procedeva come se niente fosse.

É a questo punto che Giuseppe Antoci, in qualità di presidente del Parco dei Nebrodi (86.000 ettari di terreni), sospettando infiltrazioni mafiose, mette a punto un protocollo semplicissimo che però farà saltare il meccanismo: rende obbligatoria una certificazione antimafia da parte delle prefetture e finalmente cominciano i controlli. Quanti tentano di aggirare il protocollo, regolarmente vengono arrestati.

«Il semplice arresto è come se fosse una medaglia, per la famiglia mafiosa; invece quando arriva il sequestro, che colpisce i patrimoni, le case, le auto, loro impazziscono».

Così Antoci entra nel mirino dei clan siciliani che inizialmente gli recapitano un biglietto intimidatorio. Viene messo sotto scorta in seguito alle prime minacce di morte. Nonostante la scorta il 18 maggio del 2016 le mafie locali passano al contrattacco e realizzano un attentato dal quale riesce a salvarsi con l’arrivo provvidenziale di una seconda scorta.

In seguito all’attentato viene attuato un vero e proprio tentativo di “mascariamento” nei suoi confronti: iniziano a circolare calunnie e menzogne sul suo conto, dapprima come voci di paese, poi come insinuazioni e sospetti in qualche articolo di giornale e infine direttamente dai palazzi delle istituzioni, con l’indagine della commissione antimafia della regione Sicilia.

Il capo della polizia Franco Gabrielli ha spiegato che “in questo paese non ti devi solo difendere dalla mafia e dalla criminalità ma anche da zelanti “mascariatori” pronti a inoculare sospetti ad ogni occasione”.

Il protocollo Antoci è diventato una legge dello Stato italiano e persino la Commissione europea ha invitato gli altri Stati a seguirne l’esempio. Giuseppe Antoci è oggi all’Alfano, in una scuola per raccontarsi e dialogare con i giovani. I silenzi attenti, gli applausi spontanei e le domande. Piovono domande.

 

Ciò che le fa più male è ricordare l’attentato in sé, oppure il cosiddetto “mascariamento”?

«Guarda, il “mascariamento” (che significa “gettare fango su un’azione o su una persona per screditarla agli occhi dell’opinione pubblica”) ha avuto un inizio e una fine dolorosa per chi l’ha ordito e quindi pagheranno sotto il profilo giudiziario e morale, perché evidentemente sono stati esposti ad una delegittimazione in tutto il Paese. L’attentato è una vicenda che non è un ricordo, è una cicatrice enorme che ogni tanto guardo e che non guarirà mai. Le cicatrici al giorno d’oggi vengono tolte dalla chirurgia plastica, io invece la mia non la voglio togliere, perché desidero che mi accompagni per il resto della mia vita. La considero un dono».

antoci liceo scientifico

Uno dei protagonisti della sua vicenda è il “silenzio”, di quando tutti sanno ma nessuno parla. E dentro questo silenzio ci sono altri due protagonisti: la paura e le connivenze.

Il Presidente Mattarella ha detto: “Se da una parte ci sono i mafiosi, i criminali e dall’altra c’è chi combatte, pensare di rimanere in mezzo in silenzio non è un esercizio innocuo, il silenzio non aiuta chi combatte le mafie, aiuta le mafie stesse”.

«La paura la conosco, ci convivo e tento di trasformarla ogni giorno perché non mi impedisca di esercitare la giustizia. Non si deve mai fare silenzio, è importante scegliere, voi giovani siete il presente di questo paese, non il futuro, come diciamo sempre. E dovete esercitare la scelta, scegliere da quale parte stare, consapevoli di chi c’è da entrambe le parti. Più si studia e più si sa distinguere questo spartiacque. Io sono dell’avviso che la parte culturale è fondamentale, per capire ciò che vogliamo essere da grandi. Più persone scelgono di fare il proprio dovere e meno loro (i mafiosi) hanno praterie da raggiungere.

Voi siete la classe dirigente e attiverete tutta una serie di scelte che influiranno, anche impedendo di far ritornare i “mafiosi benefattori”. Se consentiamo con disattenzione che arrivino loro prima degli altri, saremo sempre nella fase della repressione, ma la mafia si nutre di queste vicende. Deve cambiare la nostra mentalità ed è la vostra che ha una lunga strada e allora percorretela».

 

Ci sta dicendo che abbiamo una grande responsabilità…

«Pensate di fare una gita, di andare in una chiesa e vedete un mosaico enorme: ecco voi, noi tutti, siamo come le piccole tessere che compongono quel grande disegno.

Quando i fari inquadrano tante persone, l’obiettivo non è più uno solo e non ce la faranno a prendere tutti. Noi siamo più di loro, le persone per bene sono tante, ma ognuno di noi deve diventare quella tessera, senza la quale il mosaico non è completo … La scelta va fatta soprattutto per una parola importantissima: la dignità».

 

La libertà cos’è oggi per Giuseppe Antoci?

«Paradossalmente mi chiedo se io sia più libero di prima o meno. Ricordo che non appena mi assegnarono la scorta capii che stavo rischiando e tornai a casa preoccupato. Mi sentivo come un pacco che normalmente viene trasportato di qua e di là, con su scritto “pericoloso” e i pensieri erano tanti.

Le mie figlie quella sera rimasero in silenzio: pensai di aver rovinato la famiglia, di averle caricate di responsabilità troppo grandi. Il giorno dopo la mia figlia più grande mi chiese di tornare a casa prima perché doveva parlarmi. Mi chiese, strizzandomi l’occhio, di non fermarmi e mi assicurò che loro ci sarebbero sempre state. Ci siamo abbracciati e abbiamo pianto, non dimenticherò mai quei giorni.

antoci liceo scientifico

Spesso arrivano dei segnali che mettono un po’ in difficoltà la speranza, fanno perdere il senso e la fiducia nelle istituzioni…

«Ci sono due modi per morire: quello con le commemorazioni, le lapidi, il ricordo giusto e muori una volta; poi c’è quello di alzarti la mattina, andarti a fare la barba, guardarti allo specchio, sentirti “sporco”, sapere di non poter più passare nell’altra stanza e incrociare lo sguardo delle tue figlie e continuare a dire loro che la vita deve essere vissuta con rettitudine, con la schiena dritta senza abbassare lo sguardo…non lo puoi fare più e a quel punto muori ogni giorno, davanti a quello specchio. Io penso che la vita vada vissuta facendo i conti con quello specchio e credo che, nonostante tutto, se non avessi fatto quella scelta, mi sarei ingabbiato da solo, non sarei stato libero nell’anima».

 

In seguito a questa vicenda, molti potrebbero pensare: “Ma Giuseppe Antoci rifarebbe lo stesso percorso?”

«Ciò che ho fatto nella mia vita è stato rischiare di morire, perdendo la mia stessa libertà, per salvaguardare i fondi europei, ma nonostante ciò che accade intorno, io non perdo la speranza: la giustizia ha le scarpe di piombo ma arriva.

È vero che la mafia si rigenera, che è “liquida” e si adatta a tutte le situazioni, ma non si può essere pessimisti per questo. Io penso che le cose stiano cambiando, perché stiamo cambiando noi, voi, il tessuto sociale sta cambiando e queste cose possono accadere sempre meno. Dobbiamo essere noi a evitare che ciò accada. Le mafie si nutrono del negazionismo, dei tanti “la mafia non esiste” e così si infilano nelle istituzioni, nella politica, invadono la società. Ma questo voi non lo dovete permettere, proprio perché e proprio nei posti vergini, come il Molise, che loro arrivano, nei posti dove c’è quest’inconsapevole impreparazione, loro arrivano: quindi occhio, ragazzi, antenne dritte e andate dalle forze dell’ordine e comunicate ciò che vedete e sentite!

Ma vi rispondo anche con un episodio accaduto a Roma alla presentazione del mio libro. Quella sera c’era tutto lo Stato, tutti i capigruppo della Camera e del Senato, il Presidente Mattarella… È stato un grande segnale di affetto e di vicinanza, soprattutto di voglia di risultati positivi. Venivano letti alcuni passi tratti dal mio libro e capita che il mio dialogo con le mie figlie viene a leggerlo un ragazzo, Giovanni Montinaro, il figlio del capo-scorta del giudice Falcone, Antonio Montinaro. Finito di leggere, mettendomi una mano sulla spalla, mi dice: “Grazie presidente, grazie di cuore. Questa sera, attraverso queste righe che ho letto e attraverso queste parole, dopo tanti anni, sono riuscito a parlare con mio padre”. Certo, è anche per questo che vale la pena, ragazzi!»

 

Ma cosa le dà ancora la forza? Cosa direbbe a chi rinuncia a combattere trovandosi nella sua stessa situazione?

«La rinuncia a combattere spesso dipende dalla mancanza della speranza, perché si rinuncia a una cosa quando si pensa che l’obiettivo sia inutile o irraggiungibile. Io penso invece che la speranza non debba mai lasciare nessun individuo, ma questo vale in tutte le vicende della vita: penso alle malattie, a tante situazioni difficili. Io penso che si deve avere sempre speranza perché, a volte, proprio dai dolori nascono vicende positive, dal dolore della mia vicenda sono nate le scelte di tanti giovani che hanno intrapreso carriere nel mondo delle istituzioni, percorsi di cui questa esperienza può essere come un seme. E non vale solo per chi vi parla, ma anche chi ascolta, nella misura in cui voi stessi diventate semi. Io mi auguro che voi ragazzi incrociando altri ragazzi come voi possiate raccontare di questa giornata e trasferire loro che in fondo è proprio la speranza che ci trascina, la speranza di fare il proprio dovere per un Paese migliore e per sentirsi a posto con la propria coscienza. Bisogna anche ripartire, questo Paese deve riprendere coscienza, coscienza di quella che è stata la lotta alla mafia, di ciò che questa lotta ha lasciato a terra, coscienza che ognuno di noi deve avere quella parte di responsabilità, essere tassello, perché questo è un Paese con tanti valorosi uomini dello Stato e io sono qui a parlare con te grazie a loro.

Io do sempre la priorità ai giovani e desidero sempre parlare con loro perché per me questi sguardi, questi silenzi sono un “rifornimento”, mi fanno capire che non tutto è perduto, che c’è ancora speranza e sono proprio loro la mia forza, il motivo per cui continuo a combattere giorno dopo giorno».

 

Grazie per la straordinaria testimonianza di coraggio, lealtà e onestà, per l’esempio positivo rivolto a noi giovani: un servitore dello Stato, un uomo che ha scelto di donare la propria vita non da eroe – ne abbiamo avuti troppi, nel nostro paese; ma da uomo che compie semplicemente, ma tutto intero e ogni giorno, il proprio dovere.

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