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Guardialfiera, in memoria di don Antonio Antenucci

Caro don Antonio; amato don Antonio nostro!

E’ giunta l’ora anche per te. L’ora della tua sospirata guarigione. L’ora del sollievo, del momento favorevole, della salvezza!
Da coraggioso Sottotenente di Dio, hai combattuto da sempre dure battaglie; hai scavalcato frontiere e reticoli di fili spinati, dalle cui punture e dalle conseguenti sofferenze, hai ricavato l’autenticità della fede. Sulla tua pelle hai eretto il santuario vivo, concreto di ciò che hai insegnato a noi con le tue invariabili esortazioni conclusive di ogni omelia: “…e adesso ringraziamo il Signore”. E lo ringraziavi per davvero, per averti messo alla prova e per esserti abbandonato alla sua volontà. E ti ha premiato, avendo saputo gestire la tua vita e le tue infermità, come occasioni di grazia, di riparazione, di trasfigurazione. Del resto è questo il modo con cui si comportarono i giganti della fede. Fu, così, tentato il grande padre Abramo, e proprio attraverso la prova di molte tribolazioni egli divenne l’amico di Dio. Fu così pure per Isacco, per Giacobbe, così per Mosè; e per tutti quelli che piacquero a Dio – riferisce il libro di Giuditta – tutti furono provati con molte tribolazioni, e si mantennero fedeli”. E’ in questo modo, caro don Antonio, che tu hai sperimentato la bella storia dei padri antichi.

Ti conosco e ti riconosco da sempre. Sei nato infatti sotto casa mia, in Vico San Rocco, si e no ad una trentina di metri da me. Sei nato ingolfato già da sfinimenti.
La notte di quel 26 febbraio 1950 io era a Casacalenda; lì frequentavo la 3^ media. Ma, a solo pochi giorni, insieme a mia madre, scesi a conoscerti e a rallegrarmi con la “tua” mamma, la placida Cheluccia. Ella, rilassandosi, narrò a noi e a tante altre donne attorniate a lei, di quelle lunghe ore notturne. “Antonio era nato morto, sapete? apparentemente morto” – ci singhiozzò così – è nato asfittico, cianotico”, tanto che donna Matilde Jotti l’ostetrica, lo aveva ravvolto in un lenzuolino e collocato di fianco al caminetto per essere sepolto l’indomani al Cimitero. Ahimé, non era consentito allora neppure un rito sacro per i morticini senza il battesimo. Era però 1950, era l’Anno Santo di Pio XII e, per quel Giubileo – rassicurava l’Arciprete Caluori – il buon Dio non avrebbe potuto negare mai il Paradiso ad una creatura innocente.
A Cheluccia s’inserisce d’improvviso la Signora Dora Ciocco – era anche presente al parto – una vicina di casa e novellatrice carezzevole, che così prosegue il racconto: “La puerpera, dissanguata, spera e prega. Papà Matteo intuisce la gravità; corre dal medico che arriva trafelato in pigiama. Egli trascura la mamma, recupera il piccino e improvvisa una furiosa terapia intensiva neonatale. Il dott. Antonio D’Elisijs – questo nostro medico leggendario – schiaffeggia, sobbalza il piccino, lo lancia in alto; gli attua una ventilazione polmonare. Ed ecco il vagito; un altro. Antonio è vivo, mah forse con qualche trauma da parto!”.
Quaranta giorni dopo, così come al tempo di Gesù, e com’era in uso nella Chiesa preconciliare – il neonato è presentato al tempio, dentro questo Tempio, in braccio a sua madre per il culto della purificazione. Don Mario Vincelli, pure lui plasmato dai salesiani – allora Vice-parroco a Guardia – durante il rito, se ne esce con una profetica folgorazione: “Cara mamma Micheluccia, sai che c’è? C’è che un giorno don Bosco, nella chiesa di Valdocco, sussurrò ad una donna in attesa queste paroline: “il dono più grande che Dio possa fare al una mamma, è quello di avere un figlio Sacerdote!
Intanto Antonio cresce in età e grazia. Ma esile, fra le zolle aride del torrente Cervaro. Ed è lui quel ragazzo divenuto grandicello che, per raggiungere la scuola in paese, scala ogni mattina sentieri irti e scivolosi. Un giorno Fausta, la sua insegnante di 5^ elementare, assegna un tema in classe: “Cosa vorresti fare da grande?” E, nello svolgimento, Antonio scrive risoluto: “vorrei fare il prete”. E non va a capitare proprio nella famiglia di quel San Giovanni Bosco, una fra le più grandi multinazionali della Chiesa?!

Volano rapidi gli anni. A Guardialfiera, domenica 7 agosto 1977, sul Sagrato di questa nobile chiesa, don Antonio, salesiano, è ordinato presbitero! E Cheluccia ha ottenuto così il dono profetato da don Mario; ha guadagnato il più grande dono riservato alla mamma. Mons. Pietro Santoro, interpella intanto il candidato sulle responsabilità sublimi dei voti, e, in un intermezzo a sorpresa, gli borbotta napoletana-mente: “Muoviti, giovanò, osserva e spera”. E, proseguendo il Vescovo, col suo saporoso dire partenopeo, chiama a testimone il padre, la madre e i Superiori, fra i quali don Antonio Lalli, guardiese e segretario ispettoriale. Eccitando il popolo scatta: “Guagliò, attento a te se i tuoi genitori, se questa tua gente, se qualche ruffiano verrà a lamentarsi di te. Guai a te!”
Focolarino anche di Chiara Lubich, dal settembre 1977, don Antenucci, diffonde l’entusiasmo contagioso di don Bosco e la valorizzazione delle diversità di pensiero. Lo fa a Salerno, nell’Oratorio e nella Parrocchia del Carmine, e negli Istituti Superiori. poi nella Parrocchia del S. Cuore a Foggia.

Docile pedagogista organizza la sfida educativa su “amore e buonumore”; su accoglienza e generosità, comprensione e correzione cordiale. Affronta casi di sofferenza, con distillati di tenerezza. Perde prematuramente il papà nel febbraio 1979.
Ormai indebolita, a mamma Cheluccia è diagnosticata una pluripatologia degenerativa. A questo punto don Antonio, nel 1986, si distacca dolorosamente dai Salesiani e torna da lei, qui, a Guardia proprio in concomitanza alla fusione delle due Diocesi di Termoli e Larino, in un’unica realtà ecclesiale. Tutelando le coordinate della sua or ora dismessa Congregazione religiosa, chiede a mons. Ruppi d’essere accolto fra il clero secolare. Insegna a Casacalenda e coopera con don Giacomino, parroco di Lupara e Castelbottaccio. Per un anno è amministratore a Lucito; poi cappellano delle suore alla Difesa. Regge la Parrocchia di Provvidenti dal 1988, e presto ne diverrà parroco con la incardinazione ufficiale in Diocesi, decisa ma mons. D’Ambrosio.
Anno 2004. Don Antonio è aggredito da severa “Epatite C”. Per oltre un anno gli è somministrata una terapia con interferone. Gli procura febbre altissime, irritabilità, ansia, nausea, depressione, ipertensione. Ma il diabolico virus non è debellato. La mamma 85enne, accasciata di malori, spira all’alba del 7 agosto 2012. Ricorreva proprio quel giorno il 35° di ordinazione sacerdotale di Antonio.
Anno 2014, nuova e più rabbiosa ricomparsa dell’epatite. Più atroci effetti collaterali. Don Antonio abbandona la docenza a Casacalenda e la guida della comunità a Provvidenti. Entra in coma nel febbraio 2015. Ed è tratto in salvo, in extremis, all’ospedale dia Termoli.

Maggio 2016, dopo oltre un anno di spasimi, torna infiacchito, a concelebrare nella chiesetta di San Giuseppe con don Nicolino Tufilli, il quale (anche lui affaticato dal peso della Casa famiglia, la sua creatura, e da 42 anni di ministero in parrocchia) a giugno esprimerà a mons. De Luca il desiderio d’essere esonerato da ogni incarico in parrocchia.
Miracolo! “Alzati, guarda e spera! Non è ancora il momento di mettere la vita in chiusura”. Don Antonio, come Abramo, sta per chiudere gli orizzonti della vita. Ma, sbalorditivamente, viene stimolato ad alzarsi, a guardare e sperare, ma nelle condizioni meno adatte per sperare e guardare. La sua storia d‘un tratto è riaperta ad un nuovo sogno, ad una nuova missione, qui, nella sua terra, in questo piccolo mondo del quale egli conosce ogni suono, ogni profumo, e dove ogni cosa parla col suo stesso linguaggio. E per lui si compie il sogno dell’assurdo. E’ la terapia del miracolo che mons. Gianfranco De Luca, ha voluto somministrargli, ottenendo da lui un capovolgimento di vita che non durerà granché. Sarà “un prete spezzato” da infinite atrocità. Rimane tuttavia il prete quieto, ospitale; tenero, nemico del male e del peccato.

Negli ultimi tempi, con gli occhi indirizzati verso il cielo e il cuore sulla terra, in comunione con don Fernando, don Gabriele Tamilia, Domenico Di Franco e con la loro spumeggiante preparazione, crea con loro “Misericordia TV”, una emittente libera, fonte di spiritualità al servizio del Vangelo. Da questo tempio di Guardialfiera don Antonio parla con stimolante chiarezza e, assieme ai confratelli, diventa polo di attrazione per ammalati e per una platea eterogenea di auditori.
Mentre assapora quest’ultima bella esperienza, sprofonda a novembre nella voragine della depressione e dell’inasprimento epatico. E questa volta senza scampo.

Ed egli è l’ultimo dei preti guardiesi a lasciarci. Ultimo d’una serie ininterrotta e plurisecolare densissima di ecclesiastici che, solo fino a pochi decenni addietro, sfoggiava la presenza simultanea di sette sacerdoti locali, lui stesso incluso.
Don Antonio, il servo silenzioso e generoso, conclude alle 7 di lunedì mattina, il combattimento contro ogni avversità. E riconsegna al Signore del tempo infinito, quei talenti avuti in prestito il 26 febbraio 1950. Li ha trafficati e li ha moltiplicati con gli interessi composti e con la concretezza del bene. E saranno stati pieni di gioia i cieli ascoltando la voce del padrone, così rivolta lunedì mattina a don Antonio: “bene, mi sei stato fedele nel poco e ti darò il potere sul molto; entra nella gioia del tuo Signore”.
E, abbracciando Emilio, Nicolina, Dora, confortandoci con la fede nel Risorto, non chiediamo a Dio datore d’ogni bene – il perché ci abbia tolto don Antonio, ma, come Sant’Agostino, lo ringraziamo per tutto il tempo che ce lo ha donato.
Amen, Alleluja!

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