Rossoblucuore

Quando il calcio ha un regalo per te: “Ciao, sono Raffaele Di Risio…”

Tra ricordi e aneddoti degli “anni d’oro”, storia di un pomeriggio trascorso con l’ex pilastro del Campobasso, protagonista di mille battaglie sportive con la maglia dei ‘lupi’. Un gentiluomo, un animo nobile; uno dei figli migliori di questa terra

Aprile. Neve sul cuore. Grigio incedere tra contorni di primavera. Quasi fosse la provocatoria congiura di un destino indisponente: dopo pandemie e restrizioni perenni, a serrare in casa la città è la beffa di un meteo a tinte artiche.

Poco male. Forse perché, per chi scrive, “casa” e “città” risuonano tra le corde dell’anima come sinonimi perfetti. Amore. Campobasso.

Sabato mattina, malinconici scenari da una finestra. Fisso lacrime scendere via veloci dal vetro della stanza, silenzi perdersi dentro una tazza di caffè. Poi, il telefono squilla: “Luigi, ciao. Sono Raffaele Di Risio, ho un piccolo pensiero per te”. Per un attimo, il tempo si ferma; in un attimo, mareggiate interiori nelle ultime stanze di me. Balbetto un saluto sorpreso, accarezzato da una gentilezza rara: “Ok, alle 16.30 va bene. Ci vediamo più tardi”.

Il pomeriggio arriva. Il cielo più aperto, anche se il sole non scalda. Ma probabilmente il calore migliore era destinato ad arrivarmi da un “altrove emotivo” ben più lucente. Da quel presente inaspettato, ad esempio; da tre foto adagiate su fondo nero dettagliato d’oro: “So che sei tifoso della Juventus – mi spiega Raffaele – ci tenevo a fartele avere. Qui…Giocavamo proprio contro i bianconeri, qui invece contro la Roma”. Batticuore. Proust e il profumo delle madeleine. Un compendio sulla meraviglia. Istantanee da un’altra dimensione, da emisferi così straordinariamente affini alle stagioni del mio cuore.

Perché io l’ho già conosciuto, Raffaele Di Risio. In un altro tempo, nell’epica di altre epoche. In altre storie, altri racconti. Nei ricordi di mio nonno, in certe immagini d’archivio: una città intera in festa, tra eroi e capitani indimenticabili. L’ho conosciuto in una foto appesa al muro, in vecchi ritagli di giornale che mio zio conservava dentro a un album rossoblù. L’ho conosciuto in certi tape d’annata, in un’intervista a telefono, in chiacchierate notturne spese tra amici dinanzi alla saracinesca di un bar dimenticato. Io l’ho conosciuto, Raffaele Di Risio, perché in fondo non poteva essere altrimenti: la sua storia è parte della storia di questa città, di questa terra. E, dunque, appartiene inevitabilmente un po’ a tutti noi.

Probabilmente, però, Raffaele Di Risio rappresenta per me anche qualcosa di più; più di un uomo e più di una “bandiera”. È stato ed è ancora l’interprete nobile di altri lustri, di un altro calcio; un calcio romantico che non c’è più e che mi manca. Il monumento a un tempo andato, in cui i cortili erano pieni di bimbi pronti a correre dietro ad un pallone anche con le scarpette rotte e le ginocchia sbucciate. Un tempo in cui bastava poco per sorridere ed immaginare: un campo “vero”, porte che non fossero pietre, platee e gradinate stracolme, futuri migliori da costruire come capanne sugli alberi.

Un tempo che oggi è tornato prepotentemente ad agitarsi in me: impetuoso come il colpo di coda di un’innocenza atavica, luccicante come la reminiscenza di paradisi perduti. 

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