Parola ai produttori

Dal Molise la metà del tartufo bianco d’Italia e nessuno lo sa: “Lo diamo ai commercianti di Alba. Colpa nostra, dovremmo consorziarci”

Pur avendo una larghissima fetta della produzione nazionale il Molise non ha un marchio di tutela del pregiatissimo tartufo bianco. "Lo comprano i commercianti di Alba che hanno agganci tra cavatori e pseudo imprenditori, la colpa è anche nostra che non ci siamo mai consorziati" dice il produttore di Busso Vincenzo Di Iorio

Il tuber magnatum, meglio noto come tartufo bianco di Alba, è prodotto tra il 40 e il 60 per cento in Molise. Dalla nostra regione, senza autostrade, con poche industrie e vaste aree boschive (anche se a rischio) si copre la metà dell’intera produzione nazionale. Eppure, con un prodotto tanto pregiato che un ristoratore può arrivare a pagare fino 6 mila euro al chilo, non riusciamo ad avere un marchio di tutela né un consorzio imprenditoriale in grado di impedire ai ‘predoni’ del Piemonte di scendere qui da noi, comprare i pezzi migliori, e venderli col loro bollino al consumatore finale.

Come è possibile?

In questi giorni il tema sulla tutela del tartufo cavato in Molise è tornato di attualità per un discusso disegno di legge d’iniziativa parlamentare in cui si elencano specie e varietà presenti anche nella nostra regione in cui manca un marchio identificativo.

Di questo e altro ancora ne abbiamo parlato con Vincenzo di Iorio che assieme a suo fratello Francesco è al vertice di una azienda, la Di Iorio Tartufi di Busso, annoverata recentemente dalla prestigiosa rivista Forbes che ha inserito il loro prodotto di punta tra le 100 eccellenze italiane del 2022.

vincenzo di iorio tartufi

Vincenzo, ma perché il tartufo molisano viene commercializzato come un prodotto del territorio piemontese?

“E’ una vecchia storia che quelli come noi conoscono bene: lo sanno tutti nel settore che i commercianti di Alba hanno agganci qui in Molise con gruppi di pseudo imprenditori e singoli cercatori che gli vendono il tartufo. Loro lo commercializzano col marchio di Alba e lo utilizzano anche per insaporire il prodotto estero che ha una qualità di gran lunga inferiore a quella molisana dove cresce tanto tartufo bianco che, è noto anche questo, è indicatore di salubrità dell’aria e incontaminazione del terreno”.

A maggior ragione allora sarebbe urgente tutelarlo…

“E’ vero e la colpa è anche di noi imprenditori che non ci siamo mai consorziati. Due anni fa ci sono state diverse riunioni in Regione, ho partecipato anche io, c’era questa idea di creare una associazione per la salvaguardia del prodotto ma non si è arrivati a capo di un bel niente. La stessa Regione avrebbe voluto creare un marchio, un ‘ombrello’ sotto il quale noi singole imprese avremmo potuto ripararci ma anche quello non c’è ancora. Il problema è che se si continua su questa strada tra non molto resteremo pure senza tartufi”.

Perché?

“Perché molte tartufaie naturali si stanno esaurendo, non essendo tutelate da nessuno vengono utilizzate come legnaie. Per non parlare dei cinghiali. Tra 15 o 20 anni non ci sarà più nulla e l’importante produzione di oggi che oscilla tra il 40 e il 60 per cento sia per il Tuber Magnatum Pico (tartufo bianco) che per Tuber Aestivum (tartufo nero estivo) si assottiglierà (la percentuale restante della produzione se la spartiscono Umbria, Marche, Abruzzo, Piemonte Basilicata e Puglia)”.

Uno scenario davvero infausto, cosa si potrebbe fare per evitarlo?

“Serve che noi del settore ci mettiamo tutti assieme e paghiamo i cavatori e le aziende agricole che ci riforniscono di più di quello che potrebbe offrire il commerciante di Alba in modo da vendere con un marchio molisano la nostra produzione. Loro si fanno belli col nostro tartufo e ci stanno danneggiando a causa dell’assenza di una vera mentalità imprenditoriale che ci impedisce di guardare oltre la punta del nostro naso. Il problema non è della politica ma di noi produttori che non ci associamo pur sapendo che il tartufo è molto richiesto specie fuori dai confini nazionali. La mia azienda, tanto per fare un esempio, esporta l’80 per cento all’estero e solo il 20 per cento in Italia”.

Insomma, il mercato c’è, la richiesta pure. Quello che manca è la volontà e una vera vocazione all’eccellenza.

 

commenta