L'approfondimento

A Colletorto il Palazzo Marchesale svela una bella pagina di storia tra presente e passato

Sotto il sole che brilla sui cristalli di ghiaccio rivive la dimora del marchese Bartolomeo Rota. Si rianima nelle sue forme smaglianti questo imponente palazzo signorile. Incornicia a regola d’arte il flusso di architetture lontane. Tra presente e passato il sapere locale s’adagia tranquillo nel “borgo degli angioini”, noto come paese dell’olio buono. Nel palazzo c’è una liturgìa di forme ben definite. Il grosso quadrilatero, da qualsiasi punto di vista, s’impone all’osservatore nella sua originale impostazione. Un tempo faceva paura come baluardo difeso da porte e da mura. Gli ingressi con portali di pietra sono due. Disposti su piani completamente diversi.

Il primo, con stemma marchesale, tra la torre e il campanile del Battista, si affaccia sulla piazzetta principale dirimpetto alla casa canonica. Il secondo, invece, a bugnato, accentua lo spirito di una facciata a più piani e ben più ampia. A prima vista la costruzione è un unicum nel suo genere. Perché il suo perimetro, che delimita le radici del primo agglomerato feudale, per fortuna è ancora tutto libero. Consente ai visitatori di fare un piacevole viaggio nel mondo della cultura locale. Da un capo all’altro, come si può notare dalle immagini, le arcate concentriche, dentro e fuori dal palazzo, si rincorrono felicemente per produrre geometrìe ad effetto. In linea senza dubbio con i finestroni rinascimentali che portano ai piani superiori.

Qui siamo ai piani signorili d’un tempo. Ora sono occupati dalla Biblioteca, dai servizi comunali e dalla sala consiliare. In quest’ultimo ambiente si conservano quattro tele del Settecento napoletano che narrano “L’allegorìa delle quattro stagioni”. Senza dubbio colpisce l’arcata maggiore dell’ampio androne dove volteggiano svariate prospettive. Su di essa poggia un ambiente centrale occupato in tempi lontani dal salone feudale. Due ingressi, dunque, due androni su piani e con volumi diversi, al centro un ampio “cortile degli armigeri” a cielo aperto. Nel piano terra nel periodo feudale vi erano le scuderìe, i magazzini, un frantoio, le cucine e gli ambienti riservati alle famiglie più povere al servizio dei signori.

palazzo marchesale colletorto

Un piccolo mondo, dunque, ricalca l’impostazione della società dell’epoca.  Strada facendo, in seguito, accentua la differenza tra galantuomini e cafoni. Qui, nel cuore della dimora storica più importante del circondario, dove il gioco delle architetture è quasi sempre elegante e mai invasivo, rivive finalmente la vita.  Grazie appunto al rientro, dopo tanti anni di sistemazione provvisoria post sisma, degli eredi della famiglia Scalera. Proprietari di un’ala storica del palazzo, dove su una pietra segnatempo è incisa la data 1590, seguita da lettere poco leggibili. Tale fonte materiale sicuramente è un pezzo sopravvissuto di un architrave.

E così, nell’antico palazzo, come un tempo, rivivono le voci di una famiglia nel silenzioso cammino del suo divenire. La famiglia Scalera non è presente tra i nuclei citati nelle fonti scritte dei primi anni del Settecento. Si pensa che sia giunta in questa terra, ai limiti della Capitanata, allo stesso modo di tante famiglie provenienti dall’area napoletana. Sicuramente nel periodo in cui brillano gli interventi del marchese Rota che agisce assieme al Vescovo Tria.

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Il Rota, dopo la caduta in disgrazia dei Gambacorta, ricostruisce tutto per sé una domus nova. La famiglia Scalera è degna di nota per il lavoro che ha svolto al servizio dei signori. Con tanta passione ha qualificato la vita in questa immensa dimora. Con un affetto senza fine porto nel cuore tutti i suoi componenti. È la famiglia di mia madre, nata tra le mura di questo vivacissimo palazzo. Qui, puntualmente, nel ripercorrere i miei passi, ritrovo la mia infanzia, i miei studi e le storie di tante persone care. Qui mi è facile rintracciare i percorsi più strani, traballanti, spesso spericolati, per salire dal palazzo fino alla torre, all’epoca non ancora restaurata.

Ricordo i racconti dei miei intorno al camino, frutto di un immaginario collettivo. Trepidavo quando i miei nonni evocavano la presenza di un potente signore che ad un suo cenno, nel “trabucco” oscuro della torre, faceva infilzare sulle lance non poche persone. La paura saliva quando i protagonisti dei racconti erano fantasmi e mazzamurrelle che apparivano di colpo negli angoli più bui del borgo, per diventare a pieno titolo i padroni del luogo. Ricordo infine una magnifica scena della civiltà contadina che si svolgeva di routine in compagnìa.

Ovvero il lavoro di tante donne che, nel grande androne coperto, scartocciavano senza sosta cumuli di granturco maturo, da stendere, poi, sull’adiacente marciapiede, come chicchi d’oro. Quadri di vita disegnati da rugose mani. Una scena d’altri tempi. Tra le tante storie immaginate ce n’era una però vera. Alquanto interessante per gli amanti dell’arte. Utile senz’altro a ricostruire l’ala più importante della dimora marchesale.  Si tratta di un affresco di rara bellezza presente sulla volta della camera più grande, con al centro l’immagine della regina Giovanna I d’Angiò, a cui si deve la costruzione della torre angioina. Zia Nina, che aveva visto con i suoi occhi questo magnifico affresco, mi ha raccontato in tante occasioni che, dopo aver svolto vari servizi a favore dei D’Antini, in cambio si faceva portare nella cosiddetta “sala della regina”, per soddisfare la curiosità di osservarla, stupita, col naso all’insù. Un ignoto pittore aveva riprodotto l’immagine più bella di un portamento regale. La presenza dell’opera viene confermata dalla maestra Maria Antonietta Scalera che era di casa in questo angolo nobile della dimora. Per tanti anni la famiglia Scalera ha lavorato per i De Bernardo, proprietari dell’intero palazzo. Guadagnandosi stima e rispetto. Questo spiega perché, con atto testamentario, alla fine dell’Ottocento, acquista una buona parte dell’ala destra del palazzo, ubicata sulle vecchie scuderìe. Corrispondenti oggi agli ambienti sotterranei del consorzio. Nel secolo scorso nell’abitazione della famiglia Scalera ha trovato posto un antico telaio per tessere indumenti di lana e lo studio fotografico di zio Giovanni.

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Un’attività, quest’ultima, ereditata dalla famiglia Di Iorio, pioniere di non poche iniziative in paese. Mi affascinavano il buio misterioso della camera oscura e i suoi negativi, lunghi e neri, attorcigliati fino all’inverosimile. Mi colpiva l’abilità che  aveva zio Giovanni  quando ritoccava scene e volti  con la punta  di una matita che gelosamente custodiva.  Il palazzo nel Novecento diviene dunque sede di svariate attività. La prima parte dell’ala, datata 1583 con segno di croce, perché vi era una cappella gentilizia, di proprietà di un’erede dei D’Antini, è stata abitata dalla famiglia Romano. All’esterno, invece, tra i due contrafforti, tuttora sopravvive un negozio alimentare.

Dall’Apprezzo, datato Napoli, 14 ottobre 1704, firmato da Giuseppe Gallucci e Remiggio Cacciapuoto, riportato da Elisa Novi Chavarria e Valeria Cocozza nella collana Documenta, Iresmo, Palladino Editore, 2015, conosciamo una dettagliata descrizione della storica dimora: “Il palazzo baronale, quale sito in un angolo di detta Terra quasi di forma quadra isolato, non unendosi altro che con la Porta Vecchia e mura della terra dalla piazza che li sta avanti per un portone tondo con ornamenti di pietra di taglio.  S’entra al cortile grande coperta a lamia (…) dal detto cortile, con un portone grande si esce fuori dalla terra. Sopra di esso vi è la seguente iscrizione: Andreas de Gambecurt’ marchio Celentiae sibi posteris t amicis, Anno Domini MDCVIII (1608). Tutto detto palazzo è coperto a tetti e lastricate le camere di mattoni, come è capace per l’abitazione del barone. In esso vi sono di bisogno molte accomodazioni di tetti, porte e solari, atteso le mura stanno tutte buone”. A seguito della Congiura di Macchia, il palazzo marchesale, unitamente alle terre di Colletorto, viene acquistato dal marchese Bartolomeo Rota. E’ in questo periodo che viene ulteriormente ristrutturato all’insegna di una filosofìa architettonica decisamente più vivace. Assumendo così una nuova fisionomia che grosso modo corrisponde a quella attuale.  Oggi, null’austero palazzo, che nei secoli passati dominava con la sua mole tutto il circondario, regna la vita. Si percepisce il respiro infinito finalmente di chi torna a risiedervi. Garantendo così il ricordo delle tante presenze di ieri. Qui la vita rianima gli antichi spazi.

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Possiamo dire che le nuove luci rilanciano certezze e speranze. Attualmente Palazzo Rota è un monumento di storia. Indispensabile per ricostruire un pezzo importante di storia molisana.  In questo luogo del cuore, grazie alla presenza del marchese Bartolomeo Rota, tra i più attivi banchieri del Regno, si coglie il profumo di un sapere glorioso. Legato al periodo in cui Napoli, con i Borboni, a livello europeo, vive uno dei momenti più esaltanti. Di conseguenza Palazzo Rota ha sempre bisogno di attenzioni sensibilissime. Per evitare interventi infelici e bruttissimi.  Come del resto è accaduto nel passato. Se su di esso si deve intervenire di nuovo, è meglio togliere che aggiungere. È doveroso recuperare, ripulire, conservare per tutelare l’identità del luogo.  In definitiva per vedere la bellezza nelle sue forme più semplici. I beni culturali ci sussurrano questa chiara lezione. Che non bisogna mai dimenticare.

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