La testimonianza

“Cacciato da Sevel senza una parola. Ormai nelle nostre fabbriche si fa la guerra tra poveri”

Il racconto di un ex operaio dell’azienda di Val di Sangro che da qualche giorno ha perso il posto. “Crisi dei semiconduttori? Nessuno in fabbrica è venuto a spiegarmi perché sono stato lasciato a casa. Ma lì dentro è una guerra fra poveri”

Dietro quei numeri che ogni tanto vengono diffusi, ci sono delle persone. Pasquale, nome di fantasia di un operaio bassomolisano appena mandato a casa dalla Sevel, è uno di quelle centinaia di lavoratori a quali negli ultimi mesi non è stato rinnovato il contratto all’interno dello stabilimento della Val di Sangro dove si produce il furgone Ducato. Ma mentre molti scelgono il silenzio, lui ha deciso di raccontare la sua storia, pur chiedendo di rimanere autonomo. “Perché il lavoro mi serve e non si sa mai cosa può succedere in futuro”.

Lavoro che ha perso dall’oggi al domani.

“Il 30 novembre scorso ho ricevuto una telefonata dall’agenzia interinale con la quale sono sotto contratto. Mi hanno comunicato che quello era il mio ultimo giorno di lavoro per la Sevel”.

Facciamo un breve passo indietro. Lei era contrattualizzato dall’agenzia e non dalla Sevel?

“Esatto, ero in staff leasing. Vuol dire che il mio contratto con Manpower era in affitto alla Sevel. Questo significa che per un tot di mesi resterò sotto contratto l’agenzia”.

Da quanto tempo lavorava nello stabilimento di Atessa?

“Da due anni e mezzo. Ho iniziato come operaio semplice e poi dopo un corso che ho seguito, sono passato team leader. Il mio era più un ruolo gestionale. Mi occupavo del controllo dei pezzi, di dare i cambi, risolvere problemi”.

Era un lavoro stressante?

“Non direi. La difficoltà sta nell’abituarsi, ma dopo il periodo iniziale difficile non potevo certo lamentarmi. L’ho sempre visto come un punto di partenza”.

E perché la Sevel ha deciso di non rinnovarle il contratto?

“La verità è che non lo so. Nessuno è venuto da me a dirmi ‘guarda abbiamo deciso così’, nessuno mi aveva avvertito”.

Un fulmine a ciel sereno quindi?

“Non proprio. Da qualche mese sono iniziati i tagli. Vedi che va via uno, poi un altro. Due conti te li fai. Inoltre da settembre ero stato degradato da team leader a operaio semplice. Mi era stato detto che era l’unica strada per rimanere in fabbrica e invece non è bastato”.

Perché era stato degradato?

“Perché hanno tagliato la figura del team leader, con la nuova gestione non serve più”.

Per nuova gestione intende la fusione tra Fca e Psa?

“Esatto. Da lì è cambiato il clima all’interno della fabbrica. Quando è stato firmato l’accordo, un volantino circolava in azienda: diceva che nessuno avrebbe dovuto perdere il posto. Abbiamo visto che è andata diversamente”.

Cos’è cambiato da quando esiste Stellantis?

“Apparentemente nulla, nel senso che all’inizio abbiamo continuato a lavorare come prima. Col tempo però il clima è peggiorato. Tutto ha iniziato a precipitare con le ferie di agosto”.

Come mai?

“Siamo andati in ferie già con la preoccupazione perché circolavano voci di tagli e si è iniziato a parlare di questa crisi dei semiconduttori”.

In fabbrica che si dice di questa crisi? È un fatto temporaneo o piuttosto una giustificazione per la ristrutturazione in atto?

“In fabbrica si parla poco di queste cose, tutti hanno paura di esporsi, di dire una parola in più che possa essere travisata. È una guerra tra poveri, non c’è un bel clima”.

Ma lei ritiene plausibile la giustificazione della crisi dei semiconduttori?

“Credo sia vero, ma non è dato sapere se è così o se invece sia una strategia. So che lavoravamo a pieno ritmo, durante il lockdown siamo stati chiusi solo un mese e mezzo. Eravamo al massimo della produzione, avevano dovuto richiamare anche i trasfertisti per quanto lavoro c’era. Ci hanno detto che per aumentare la produzione serviva un altro stabilimento”.

Quello in Polonia?

“Proprio quello. All’inizio ci siamo un po’ preoccupati, ma poi visto che si lavorava tanto ci siamo rassicurati”.

Crede che i sindacati abbiano fatto abbastanza per voi?

“Io da interinale avevo pochi rapporti coi sindacalisti. Ne conosco alcuni, dopotutto sono persone come noi. Però se non difendi chi è a rischio, restano solo gli operai a tempo indeterminato e quelli si difendono da soli. Ormai chi poteva perdere il posto l’ha perso. All’estero vedo che quando si parla di tagli i cancelli chiudono. Qui da noi ci sono state delle riunioni, ma solo chiacchiere”.

Si è chiesto se per caso avrebbe potuto fare qualcosa di diverso?

“È normale, ora che ho tempo libero i pensieri sono tanti. Di straordinari ne ho fatti a bizzeffe, ero sempre disponibile quando mi chiedevano qualcosa, il mio telefono squillava sempre. Mi avevano sempre detto che il mio lavoro era ineccepibile. Eppure sono passato da ineccepibile a senza lavoro”.

La domanda inevitabile che si sarà posto è: perché proprio io?

“Esatto. Se ci fosse una spiegazione, anche la più assurda, me ne farei una ragione. Questo mi pesa, non so se la dignità vale lo stipendio che prendiamo. A tutto c’è un limite, essere considerati così no”.

Ha sentito qualcuno dalla fabbrica, fra colleghi e capi, dopo quello che le è successo?

“Coi colleghi sì, ci sentiamo. Il mio capo anche mi ha chiamato e mi ha fatto piacere. Poi nessun altro. È questo che fa più male, sono persone con cui mi rapportavo tutti i giorni e non mi hanno nemmeno chiamato per sapere come stavo. Come se io lì per due anni e mezzo non ci fossi mai stato”.

Ci si sente un numero?

“Peggio. I numeri a fine giornata devono uscire dalla fabbrica. Io sono uscito e basta, si vede che qualcun altro doveva rimanere. Però senza nulla togliere ai colleghi, dico che come è toccato e me può toccare agli altri. Anche ai dirigenti”.

Guardandosi indietro, è pentito di essersi candidato a lavorare in Sevel?

“No, perché prima avevo lavorato solo nel settore turistico, ma tre mesi l’anno sono pochi. Inoltre all’epoca la Sevel assumeva tanti giovani. Ci venne detto che c’erano grosse prospettive perché dopo 30 anni dall’apertura molti operai e dirigenti sarebbero andati in pensione e si sarebbero liberati dei posti”.

E invece è successo il contrario.

“Ripeto, all’inizio non era così. Se sei mesi fa mi avessero detto che sarei andato a casa entro fine anno non ci avrei creduto. È cambiato tutto in poco tempo”.

Era meglio quando non esisteva Stellantis, quando il gruppo era Fca?

“Sicuramente sì. La fabbrica aveva un’anima italiana che ha perso”.

Ma se dovesse passare questa crisi e la Sevel dovesse riprendere ad assumere, fra qualche mese, lei ci penserebbe?

“Credo che ormai quella sia una porta chiusa. A distruggere è un attimo, a costruire ci vuole molto tempo”.

A Termoli Stellantis vuole costruire una Gigafactory. Le interesserebbe lavorare lì?

“Non so, per ora non si vede niente. Non vedo tante prospettive”.

E l’indotto del settore Automotive?

“L’indotto sta morendo, quasi non c’è più. Prima in autostrada vedevamo un sacco di merci circolare, ora sempre meno. Pur il pullman per la Sevel era pieno e ora non più”.

Cosa pensa di fare adesso?

“Sto riflettendo. Non nascondo che a volte vedo tutto nero, però ho un’esperienza e una formazione da spendere e mi dico che non può piovere per sempre. Nel frattempo mi sono rimesso a studiare per dei concorsi pubblici. Ho una laurea da sfruttare. Intanto mi guardo attorno”.

Intende rimanere in Molise?

“Non lo so, sto riflettendo anche sull’opportunità di andarmene, sebbene sia l’ultima possibilità. Però quando davanti trovi un muro, vai a cercare lavoro dove ce n’è”.

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