L'Ospite

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Amare Dio non è complicato

di don Mario Colavita

cristo farisei

In uno dei suoi tanti discorsi il vescovo di Ippona, Agostino dice: “cerca il motivo per cui debba amare Dio e non troverai che questo: perché Dio per primo lo ha amato. Colui che noi abbiamo amato ha dato già se stesso per noi, ha dato ciò per cui potessimo amarlo” (Discorso 34).

Non siamo abituati a domandarci circa l’amore e perché amare Dio, riflettendo nel silenzio del cuore Agostino ci invita a considerare l’amore che Dio ha per l’uomo, fino a donare il Figlio.

Amare Dio non è solo un precetto, un obbligo è qualcosa di più e vale la pena approfondire il motivo di quest’amore.

Dei personaggi dei vangeli gli anonimi ci aiutano a fare domande di senso e a cercarne anche delle risposte.

Oggi è il turno di uno scriba, un uomo colto che sa leggere e spiegare la legge di Dio, conosce a memoria i comandamenti e li interpreta. Nel ginepraio delle leggi e leggine, tra 613 precetti di cui 365 proibizioni e 248 comandi, il credente ebreo a volte faceva molta difficoltà ad onorare e rispettare Dio.

Da qui la domanda dello scriba a Gesù: tra tutte questi precetti il più grande qual è, qual è il comandamento che può racchiudere tutti.

Gesù coniuga così due testi del Pentateuco, Dt 6, 4-5 (il famoso passo dello Shemà Israel che gli ebrei recitano tre volte al giorno) e Lv 19,18, brani che invitano ad amare, riconoscendo l’unicità del vero Dio e accogliendo il volto di un prossimo che non è una minaccia ma dono di Dio che apre la vita alle multiformi espressioni della socialità, della solidarietà e della comunione spirituale.

Farebbe bene anche a noi ripensare ai due comandamenti che ci aprono la via alla libertà di amare Dio e il prossimo.

L’amore non è costrizione, così anche la fede, non è mai un costringere ma gesto di libertà finalizzato alla realizzazione di sé.

La parola “fede” in greco “pístis” nel Nuovo Testamento ricorre ben 243 molto di più di speranza e carità. È importante riscoprire e capire la nostra fede. Il concilio di Trento (1545-1563), un concilio dommatico e pastorale, con poche parole ribadisce cos’è la fede e dice: “il principio dell’umana salvezza, il fondamento e la radice di ogni giustificazione, senza cui è impossibile essere graditi a Dio e condividere la condizione di suoi figli”.

La fede non è opera dell’intelletto umano che tenti di scalare le vette del divino, ma accoglienza della graziosa manifestazione che Dio ha dato di se stesso. La fede è essa stessa, nelle parole della Scrittura, “fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono” (Eb 11,11).

Gesù ricorda allo scriba che la fede non consiste in una lista di preghiere da sciorinare, né in un’impalcatura di regole sulla quale arrampicarsi, né in una formula da ripetere a menadito che mette al riparo da ogni male e sfocia nella presunzione di aver raggiunto la perfezione.

La fede è lotta, è ricerca è capacità di relazionarsi con il divino e costruirvi un’alleanza duratura.

Amare dunque diventa la pista principale per comprendere Dio amore l’amore di Dio, non è complicato è semplice e “naturale”. Nella confusione di oggi, mentre cerchiamo di raccapezzarci qualcosa circa la fede non possiamo non prescindere dal consolidare l’amore a Dio e al prossimo.

Se Dio viene meno dal nostro orizzonte, se l’amore viene sostituito dai nostri capricci, anche il prossimo sparisce dall’orizzonte per cui l’altro diventa una cosa tra le altre o peggio un nemico che ostacola la mia autorealizzazione.

Ciò che favorisce e dice amore è la vicinanza e la prossimità. Nel mondo pre-tecnologico la vicinanza era fondamentale, oggi domina la lontananza, il rapporto mediato e mediatico. Fanno riflettere le parole di Dante Alighieri, il nostro sommo poeta a 700 anni dalla morte ha scritto nel convivio: “La prossimitade e la bontade sono cagioni dell’amore generative”.

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