Dallo stato di new york al molise

L’11 settembre di Peter, americano ‘molisanizzato’: “Per me come l’attacco di Pearl Harbour e l’omicidio di Jfk”

Gli attentati alle Torri Gemelle, il patriottismo, la guerra e il modo in cui gli Usa sono visti nel mondo nelle parole di Peter Farina, fondatore della società ItalyMondo, specializzata nelle pratiche e la genealogica degli italo-americani

L’11 settembre è una data che ha segnato il mondo intero. Ognuno di noi può raccontare dov’era e cosa stava facendo, ma il punto di vista di chi in quei luoghi è cresciuto aiuta a capire anche tanto di quello che è accaduto dopo. Specie se quel qualcuno è un americano trapiantato in Molise, nativo nello stato di New York e oggi a capo di un’azienda che da Campobasso ricrea legami persi nel tempo fra l’Italia e l’America.

Lui è Peter Farina, 37 anni, fondatore di ItalyMondo, una società con 25 dipendenti e due sedi (Campobasso e Amsterdam, nello stato di New York) e che da 15 anni si occupa di pratiche per la doppia cittadinanza italiana e americana, scopre le storie sepolte nel passato degli italo-americani con tanto di albero genealogico e organizza viaggi transoceanici alla scoperta delle radici di quei figli, nipoti e pronipoti di emigranti che lasciarono lo Stivale alla ricerca dell’America, in tutti i sensi.

Società che chiaramente non esisteva nel 2001, quando Peter aveva solo 17 anni e frequentava ancora l’High School. Nelle sue parole riviviamo il giorno che ha cambiato il mondo da una prospettiva americana.

Peter, se le dico 11 settembre qual è la prima cosa che le viene in mente?

“Il fumo dalle Torri gemelle. Questa è l’immagine nella mia mente”.

Domanda che ognuno di noi si è sentito fare almeno una volta nella vita: dov’era quel giorno?

“È uno di quei giorni che ricordi ogni anno, un momento indimenticabile. È quello che è stato l’attacco di Pearl Harbour per i miei nonni oppure l’omicidio di JFK per i miei genitori. Se domando a loro dove si trovavano quando hanno ucciso il presidente loro sanno dirmelo perfettamente. Per me è la stessa cosa con l’11 settembre”.

Vuole condividere il suo punto di vista con noi?

“Ero all’ultimo anno di High School a Fonda ma quel giorno presi un permesso per andare dal medico ad Amsterdam perché avevo un raffreddore. Così ho acceso la radio per ascoltare un programma che si chiama Howard Stern Show che in America è molto popolare ed è noto per fare black humour. Così hanno iniziato a parlare di fumo che usciva da una delle torri, ma all’inizio non si capiva se era uno scherzo. Quando sono entrato nello studio medico erano tutti davanti alla tv e si vedeva il fumo da una delle torri ma anche lì non si capiva se era stato un incidente con un piccolo aereo, come successo in passato. Quindi ho fatto la mia visita medica e quando sono uscito ho visto il replay dello schianto del secondo aereo”.

A quel punto ha realizzato cosa stava accadendo?

“Avevo capito che non si trattava di un piccolo incidente ma di un vero attacco. Sono tornato a casa e ho trascorso la giornata a guardare in tv il World Trade Center che andava a fuoco. Da buon americano ho tirato fuori un fucile perché realmente non si capiva cosa stava accadendo. Anche i giornalisti faticavano a spiegare cosa stava succedendo, finché poi si capì che era un attentato terroristico di Al Qaeda”.

Si avvertiva da subito che qualcosa sarebbe cambiato?

“All’inizio eravamo tutti in shock. Nelle settimane seguenti la bandiera americana era ovunque: case, strade, quartieri. C’era un sentimento di patriottismo che potevi avvertire e che prima di allora non avevo mai sentito così forte, come lo sentivano i miei nonni nel 1941, tanto che si arruolarono volontariamente. C’era un grande orgoglio, avevi voglia di fare qualcosa. Anche le canzoni di musica country, che è la mia preferita, parlavano da un lato della perdita e della tristezza che provocarono gli attentati, ma dall’altro c’era la voglia di farla pagare a chi ci aveva attaccato”.

Ha perso amici o parenti negli attentati?

“No, nessuno. Però conosco tante persone che hanno perso dei cari e ragazzi che si sono arruolati e hanno fatto la guerra in Afghanistan e in Iraq”.

La presenza militare americana in Afghanistan è terminata solo pochi giorni fa e i talebani si sono ripresi il potere. Ne è valsa la pena?

“Credo sia difficile oggi trovare qualcuno che crede sia stato giusto fare quelle due guerre. Quella in Iraq non serviva proprio, mentre in Afghanistan abbiamo schiacciato i talebani per poi rimanere a fare Nation Building ma a che pro? Molti reduci di quella guerra mi avevano detto che era tutto inutile, non si poteva cambiare nulla. Penso inoltre che un attentato accaduto a Manhattan ha avuto conseguenze tristi in molte parti del mondo, anche nel Molise che ha perso un militare, il paracadutista Alessandro Di Lisio (morto in Afghanistan nel 2009, ndr)”.

Che idea si è fatto degli attacchi terroristici dell’11 settembre? Erano rivolti all’America, all’Occidente o a cosa?

“Per me è stato un attacco al nostro stile di vita, nel bene e nel male. Era un sentimento contro la nostra cultura, un attacco al simbolo del capitalismo e alla libertà”.

Da quel giorno sono nate molte teorie del complotto sugli attentati. Pensa che abbiano qualche fondamento?

“So che ci sono queste teorie ma per me è più entertainment. C’è su Netflix un ottimo documentario che ricostruisce l’11 settembre da prima che accadesse, quando gli americani finanziarono i talebani contro l’Unione Sovietica, con la storia di Bin Laden fuggito dalla sua famiglia in Arabia Saudita e anche quello che è successo dopo. Grazie a Edward Snowden sappiamo che il Governo ha autorizzato un piano di sorveglianza della popolazione. Però non penso che fosse un Inside Job (un piano partito dal Governo, ndr). Credo invece che qualcuno l’ha autorizzato per favorire i propri affari, penso al mondo industriale che ha avuto 20 anni di guerra in Afghanistan”.

Cos’è cambiato in America in 20 anni?

“Quel sentimento di unità che c’era in America all’epoca si è completamente dissolto e anzi oggi basta parlare di politica per vedere come si sono polarizzate le posizioni. Oggi servirebbe più unità. All’epoca tutti spingevano per farla pagare a chi ci aveva fatto così male ma dopo che si è diradata la nebbia, l’opinione sulla guerra è cambiata. Adesso nessuno la vede di buon occhio”.

Ha mai avuto episodi negativi legati al fatto di essere americano?

“No, anzi all’epoca eravamo ancora visti che i good guys contro i bad guys (buoni contro cattivi, ndr). Forse adesso non è più così. Conosco invece persone musulmane che hanno avuto problemi dopo l’11 settembre, come commenti negativi o altro. Ma pensare che tutti i musulmani siano terroristi sarebbe come dire che tutti gli italiani sono mafiosi. È sbagliato e so cosa si prova, conosco il sentimento anti italiano”.

Ha mai avuto timore di viaggiare dopo quello che era successo?

“All’inizio avevo un po’ di preoccupazione, ma ero giovane e dovevo ancora crescere. Ricordo di aver fatto il primo volo in aereo per l’Europa con un rosario in tasca. Una cosa stupida e inutile a pensarci ora”.

Per voi che lavorate fra Italia e Usa è stato più difficile il post 11 settembre o adesso con la pandemia?

“Sicuramente adesso, perché è una cosa che tocca tutti, basta vedere le mascherine. All’epoca se vivevi nel Kansas, tanto per fare un esempio, la cosa non ti toccava più di tanto, a meno che qualcuno di tua conoscenza si fosse arruolato”.

Come racconterebbe quello che è successo a una persona che all’epoca non era nata e non sa molto dell’11 settembre?

“È un po’ come chiedere ai miei genitori della morte di JFK o ai miei nonni di Pearl Harbour. Adesso saranno i miei figli a chiedermi dov’ero all’epoca, cosa facevo e cose così. Io racconterò loro tutto il male che c’è stato, le migliaia di persone morte, la guerra, le rivelazioni di Edward Snowden e magari di alcuni malfattori in cravatta che hanno autorizzato l’emergenza per il loro bene. È tutto molto triste e a rivedere il documentario su Netflix, con le testimonianze dei parenti dei vigili del fuoco, mi sono commosso. Ma parlerò anche dei sentimenti positivi di patriottismo e unità e dell’orgoglio di essere americani. È qualcosa di difficile da spiegare”.

Da allora ad oggi come sono cambiati i suoi sentimenti verso quel giorno?

“Prima c’erano solo rabbia e patriottismo, ora tanta tristezza. C’è anche un po’ di vergogna perché all’inizio forse eravamo nel giusto e ora è più difficile capire perché siamo rimasti tanto tempo in Afghanistan. Vedo ancora l’America come chi può portare il bene nel mondo ma c’è un problema di terrorismo che non è stato gestito bene”.

Cosa farà per l’anniversario dei 20 anni dall’attentato?

“Da buon americano per domenica sto organizzando un barbecue a casa, a Campobasso, con la mia famiglia. Sabato credo che vedremo insieme ancora il documentario e racconterò a mia moglie e ai miei figli quello che vorranno sapere. Voglio imprimermi nella memoria le testimonianze di chi ha perso tutto quel giorno. Ho imparato delle cose vedendolo e ho pianto, non lo nascondo”.

Sarà una ricorrenza vissuta in Molise quindi.

“Sì, io e la mia famiglia ci dividiamo fra America e Molise. Lei è molisanissima, mentre io ho scoperto le mie radici nel 2004 quando sono andato a Guardiaregia, paese d’origine di mia madre, per camminare sulle pietre dei miei avi. Ma la mia prima esperienza in Italia è stata negativa per tanti fattori, sia al Consolato in America che a Roma”.

Così ha creato ItalyMondo.

“Nel 2006 ho lasciato l’università e ho fondato questa società che speravo esistesse quando ne ho avuto bisogno io nel 2004”.

Un colpo di fulmine col Molise?

“Quando ho bussato alla porta dei miei parenti a Guardiaregia, loro mi hanno accolto anche senza conoscermi. È stata un’esperienza che mi ha cambiato la vita”.

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