Termoli

“Mio padre, sballottato come un pacco da un ospedale all’altro durante l’emergenza covid: 9 mesi di agonia, poi ci ha lasciato”

Da Termoli al Gemelli Molise quindi di nuovo Termoli e poi San Giovanni Rotondo. Da ottobre 2020 a luglio 2021 tra scaricabarile, mani alzate, solitudine. Nicola, 68 anni di Termoli, è morto il 25 luglio scorso e la figlia Annalisa racconta la sofferenza davanti alla vita di un uomo autonomo e sano che si è ritrovato, nel pieno dell’emergenza covid, a fare i conti con le tante falle della sanità e un apparente disinteresse. "Per me equivale a una omissione di soccorso"

Quando è entrato in ospedale, la notte tra il 12 e il 13 ottobre 2020, camminava sulle sue gambe. Era autonomo, autosufficiente. Era uno di quei pazienti statisticamente destinati a sopravvivere. E invece Nicola, termolese di 67 anni, è morto nove mesi dopo, al termine di un calvario fra ospedali diversi, medici diversi. Il covid non c’entra, o forse sì. C’entra perché ha avuto la sfortuna di ammalarsi nel momento peggiore dell’assistenza sanitaria, quando i reparti erano sotto l’assedio del virus e tutte le energie erano concentrate per curare i malati con la polmonite da Sars Cov 2.

E lui, uno fra i tanti malati extracovid, ha sperimentato le conseguenze peggiori di una situazione che ha portato i referenti della sanità a dover scegliere, selezionare. “Ma nulla può giustificare quello che gli è accaduto, l’epilogo di questo dramma” racconta Annalisa, la sua giovane figlia, che a un mese esatto dai funerali ha un nodo di pianto che non si scioglie nella voce incrinata.  E’ lei a farsi portavoce di questa storia, una delle tante storie di malasanità che hanno incrociato sul percorso l’emergenza covid ma che non per questo sono trascurabili.

“Papà è stato ricoverato in cardiologia all’ospedale di Termoli la notte tra il 12-13 ottobre 2020. Non si sentiva bene, ma soltanto dopo 23 lunghi giorni di ricovero, durante i quali è stato allettato e gli è stata somministrata una inutile e pesante terapia antibiotica, hanno fatto la diagnosi. Aveva una endocardite, e nel frattempo inevitabilmente sono arrivati ictus e ischemie. A quel punto, tardivamente, lo hanno mandato al Gemelli Molise di Campobasso per sottoporlo a un intervento di sostituzione della valvola mitrale”.

Nicola al Gemelli è arrivato in coma il 4 novembre. “Le sue condizioni erano gravissime – continua Annalisa – e i medici ci avevano dato poche speranze. Tuttavia non c’era altro da fare se non l’intervento, che mio padre ha superato in modo straordinario, a riprova che il suo organismo era forte e lui era sano”. Un intervento chirurgico delicato, a cuore aperto, durato 7 ore. Poi il trasferimento in Riabilitazione, nello stesso ospedale, fino alle dimissioni il 23 dicembre. “Quando è uscito papà era un’altra persona, lo abbiamo riportato a casa ma non era più lui. E malgrado il trascorrere del tempo le sue condizioni non sono migliorate”.

“Noi chiedevamo cosa fare, supplicavamo di ricoverarlo, o almeno di visitarlo visto che l’operazione chirurgica l’avevano fatta loro, ma l’unica cosa che ci veniva detta era che se fosse peggiorato avremmo dovuto riportarlo a Termoli perché lì non c’è un Pronto Soccorso”. Contatti avvenuti sempre al telefono, in settimane convulse, con pochi medici disposti a parlare. E Nicola è peggiorato, ancora, infatti, fino a dover tornare in ospedale, e di nuovo a Termoli.

Erano i giorni in cui il Molise faceva i conti con una emergenza senza precedenti e la carenza di camici bianchi e posti letto. “Mio padre stato abbandonato al suo destino” rivela la figlia, che non riesce a darsi pace e che “no, non voglio denunciare, non è questo il punto. So che nulla potrà restituirmi papà, ma ho bisogno di rendere pubblica questa storia perché on è giusto, nel suo rispetto, accettarla come un effetto collaterale”.

Ogni dramma parla un linguaggio soggettivo, e le inefficienze anche strutturali degli ospedali molisani hanno svelato attraverso singoli casi l’effetto collaterale del disastro pandemico arrivato tra capo e collo su un sistema che non ha retto all’urto della piena.

Il calvario di Nicola, che nel frattempo aveva compiuto 68 anni, non è finito. “A Termoli non sono potuti intervenire per una nuova sostituzione della valvola e lo hanno spedito a San Giovanni Rotondo. Ci avevano promesso un intervento all’avanguardia, con una sonda catetere, perché papà non avrebbe potuto reggere un nuovo intervento di chirurgia tradizionale. Stava male”.

Per ben due volte, nelle tre settimane in cui è rimasto nell’ospedale pugliese, i medici di San Giovanni Rotondo hanno programmato l’intervento, dopo aver sottoposto il paziente al rituale del tampone (sempre negativo) e alla preparazione. E per ben due volte l’intervento è stato disdetto all’ultimo momento, senza spiegazioni alla famiglia. “Ci ha chiamati lui la sera prima delle dimissioni, delle quali noi non sapevamo nulla. Ci ha detto domani torno a casa. Ma come? Non devi operarti? Non più, ha risposto”. La famiglia ha chiesto spiegazioni, disperata. Ma l’unica risposta arrivata, “sempre al telefono perché andare in ospedale era impossibile per le norme anti-contagio, ed era impossibile guardare in faccia un medico e poterci parlare di persona”, è stata questa: “Noi operiamo in un modo, a Campobasso hanno operato in un altro. Ora non ci possiamo mettere una pezza”.

Nicola è stato dimesso, e tanti saluti. E’ tornato a casa, ha continuato a peggiorare. “Nessuno ci ha aiutato. I medici non si sono voluti assumere la responsabilità. E mio padre il 25 luglio ci ha lasciato”. E’ trascorso un mese esatto dal funerale, e Annalisa non può farsene una ragione. Non vuole denunciare, sa che non servirebbe “e poi in vita non può riportarmelo nessuno”. Ma questa storia la consegna al Molise con la speranza che quello che è accaduto al padre non accada agli altri. E chissà se quei medici che hanno girato la testa dall’altra parte abbiano uno scatto di coscienza, così come i pianificatori della sanità regionale. Chissà che questa storia non possa diventare un motivo per riflettere, tutti, su quanto sia prioritario, oggi più che ieri, mettere la tutela della vita umana e della salute al primo posto. (mv)

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