Il personaggio che amiamo

Per Luis Enrique, l’Uomo che ha alzato la Coppa con gli Azzurri

Ritratto dell'El hombre de Gijon, Lucho l’asturiano triste. E così il calcio, sempre più soggiogato al vil denaro e succube dell’ingordigia dei procuratori e delle pay-tv, riesce ancora a regalarci l’Uomo Luis Enrique, la sua parabola di vita, il suo essere normale in un mondo di finzione, il suo distacco verso quello che in fondo resta un gioco con un vincitore ed un perdente, il suo Onore così antico di cavaliere asturiano del tempo che fu.

Foxboro Stadium, Boston, Massachusetts, 9 luglio 1994…in una torrida giornata di luglio, nel tardo pomeriggio, tutta l’Italia è davanti al televisore per i quarti di finale del mondiale americano, si sfidano i nostri azzurri contro le furie rosse della Spagna.

E’ la Nazionale di Sacchi, la sublimazione del sogno berlusconiano, il suo Milan in dieci anni aveva vinto tutto il possibile ed era stato lo spot più importante per l’ascesa al potere del presidente della Fininvest.

E’ una Nazionale divisiva in un Paese spaccato a metà, con la sinistra istituzionale e di piazza arroccata in una sorta di Aventino, chi è contro il Capo del Governo abbandona il grido di incitamento “Forza Italia!”, segue gli Azzurri con distacco o persino con malcelata soddisfazione dopo la sconfitta all’esordio contro i carneadi della Repubblica d’Irlanda.

Lo stesso Sacchi è poco amato, è sacerdote ed interprete di un calcio ossessivo e maniacale fatto di occupazione degli spazi e sovrapposizioni che mal si conciliano con il Genio italico; Arrigo da Fusignano ama i giocatori di corsa e di potenza lasciando poco spazio alla fantasia e al giocatore più rappresentativo e più tecnico di quel decennio: il Divin Codino Roberto Baggio.

Ma Baggio mette d’accordo tutti, in una partita ormai persa contro la fortissima Nigeria, inventa un gol impossibile all’ultimo respiro che porta l’Italia ai supplementari e la decide nel momento più difficile regalandoci i quarti di finale contro le Furie Rosse.

In quel 9 luglio Todos Caballeros, gli italiani dimenticano la politica e tornano in massa a sperare nella vittoria finale, in una partita giocata all’arma bianca col gol decisivo ai supplementari che ci proietta verso la finale col Brasile.

Ma in quella partita accade un fatto importante: la Spagna è alla disperata ricerca del pareggio e dal nulla appare la testa rasata di Luis Enrique, l’asturiano triste lanciato verso il gol che porterebbe la Spagna ai rigori.

Ma i sogni spesso si fermano sul più bello e una gomitata del rude Tassotti che gli frattura il setto nasale spegne il suo e quello della Spagna.

In quel pomeriggio di luglio, assembrati in un torrido appartamento universitario, la gioia per la qualificazione viene offuscata dalla smorfia di dolore di Lucho e dalla sua disperazione e le sue lacrime per quel naso sanguinante.

Luis Enrique non fa polemiche, archivia quella delusione e si lancia in una carriera da calciatore ricca di successi che lo portano a vestire la “camiseta blanca” del Real Madrid ed il blaugrana del Barcellona dove conquista i maggiori successi.

Nel 2008 inizia la sua carriera da allenatore, prima nelle giovanili del Barcellona e poi con il grande salto nel calcio che conta: la panchina della Roma.

Nella Capitale non vive una esperienza felice: la sua voglia di innovazione e di sperimentazione mal si concilia con una società che vuole vincere subito e così, dopo un deludente settimo posto condito dalle feroci critiche della tifoseria giallorossa, rescinde il contratto e torna in Spagna, rescinde il contratto quando potrebbe starsene un anno fermo a stipendio pieno.

Ancora Barcellona, ancora il suo amore più grande, si rilancia conquistando la Liga e battendo la Juventus in una finale di Champions senza storia, l’apoteosi verso il traguardo più ambito: la panchina delle Furie Rosse.

Ma come spesso accade, nel momento più alto, l’ascensore della vita ti riporta giù e ti pone di fronte alle sfide più difficili, la terribile diagnosi di tumore alle ossa della figlia Xana lo costringe alle dimissioni da commissario tecnico della Nazionale spagnola.

Xana muore poco dopo, Lucho è costretto a vivere la peggiore esperienza di una esistenza: sopravvivere ai propri figli dopo aver cullato la speranza di uscire felici fuori dall’incubo.

Se penso al Dolore assoluto mi vengono sempre in mente i versi di Pessoa sul dolore, A Dor come direbbe il grande poeta portoghese “Penso a te nel silenzio della notte quando tutto è nulla, e i rumori presenti nel silenzio sono il silenzio stesso, allora, solitario di me, passeggero fermo di un viaggio senza Dio, inutilmente penso a te. Tutto il passato in cui fosti un momento eterno, è come questo silenzio di tutto”

Luis Enrique esce da quel Silenzio, torna sulla panchina delle Furie rosse e, come in tante storie della vita, allontana l’irriconoscente Robert Moreno, il suo fidato secondo, che gli era subentrato temporaneamente.

E così, 27 anni dopo, in una torrida serata di luglio, il viso scolpito dal dolore dell’asturiano triste, si ripresenta nella semifinale del campionato d’Europa di nuovo contro gli Azzurri, una Nazionale questa volta amata da tutti in una Nazione piegata ma mai vinta dalla pandemia che cerca disperatamente di rialzarsi, come ha sempre fatto, nei momenti più difficili.

Mi torna in mente il suo volto sanguinante dei Mondiali statunitensi ma questa volta l’Uomo Luis Enrique scrive una pagina indimenticabile di sport e di fair play, abbraccia Federico Chiesa nel momento in cui esce, complimentandosi con lui per lo splendido gol realizzato, segue il match drammatico con una compostezza che non passa inosservata, stretto nel suo maglioncino grigio, dichiara nel dopo partita di essersi divertito, di essere orgoglioso dei suoi ragazzi sconfitti da un avversario più forte, avversario per il quale tiferà nella finale di Wembley e lascia un grande insegnamento per i ragazzi che si affacciano alle competizioni: ”Sono stanco di vedere le lacrime nei tornei di ragazzi o bambini, non so perché piangano. Devi iniziare a gestire la sconfitta, a congratularti con il tuo avversario e insegnare ai bambini a non piangere. Devi alzarti e congratularti con il vincitore”.

E così il calcio, sempre più soggiogato al vil denaro e succube dell’ingordigia dei procuratori e delle pay-tv, riesce ancora a regalarci l’Uomo Luis Enrique, la sua parabola di vita, il suo essere normale in un mondo di finzione, il suo distacco verso quello che in fondo resta un gioco con un vincitore ed un perdente, il suo Onore così antico di cavaliere asturiano del tempo che fu.

Hai alzato anche tu quella Coppa domenica sera insieme ai nostri meravigliosi Azzurri, hai alzato la Coppa del fair-play e della sportività insieme ai tuoi ragazzi in gran parte poco conosciuti ma Squadra vera.

Ho voglia di immaginare gli occhi di Xana, in quel Silenzio di tutto, orgogliosi di te e dei tuoi valori…Onore a te….Lucho…Cavaliere triste

 

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