Campobasso

L’estate “ripopola” borghi e città: la metafora del ritorno, il futuro che ci appartiene

Immagini in controtendenza con il leitmotiv di depauperamento demografico in corso, soprattutto nel Mezzogiorno: la “bella stagione”, come di consueto, rappresenta puntuale occasione per il “rientro ala base” di tantissimi conterranei. Ma, al medesimo tempo, il delinearsi della ritrovata (seppur temporanea) vivacità dei centri molisani - dal capoluogo alle realtà più piccole - pone interrogativi importanti sulle sfide di questi tempi.

Luglio. Avanguardia emotiva. Sete e miraggi esalano da marciapiedi antichi; ritornelli masticati dai finestrini delle auto in corsa. La città nuda. Sulle panchine, in centro, l’ombra finalmente si sdraia. Sovversiva. E stanca di fare a spallate col carro rovente di Apollo.

Campobasso. Il corso, di questi tempi, è via in mezzo al deserto. Un’oasi concettuale, fotografia trascendente. L’istantanea di ciò che tra un attimo appena sarà ricordo: il luogo in cui saggezza e gesti ripetuti dei canuti abbracciano la luccicante effervescenza dei più piccoli. Inscindibile unità degli antipodi, suprema convergenza degli estremi: segreti soffiati in una metafora visiva. Essere comunità è camminare insieme.

La traiettoria dal nome regale, cardine e decumano a due passi dal drago e dal Santo, dal palazzo comunale: é come se ognuno – passando – lasciasse una traccia, un solco, una testimonianza nella storia, nella pancia del tempo di questa città. È come se ognuno qui fosse stato da sempre, ancor prima di venire al mondo ed è come se qui ognuno dovesse per sempre restare, in qualche modo; che sia col corpo o col cuore soltanto, che sia con entrambi. Insieme a chi c’era prima, insieme a chi dopo verrà.

Perché non si sceglie la terra d’origine, proprio come non si sceglie la madre. L’amore è metafisica applicata.

Ecco perché l’estate, soprattutto nelle piccole realtà territoriali e nei borghi, è spesso rievocazione ancestrale del cordone ombelicale che lega un uomo alla sua origine, alla prima parola pronunciata, a una improferibile bellezza.

Ben fuori dal boato e dalle sirene dispersive delle metropoli, esiste infatti una ricchezza – culturale, artistica, paesaggistica e identitaria – straripante nel nostro Paese: sono quasi 5.600 i piccoli Comuni italiani, dieci milioni i cittadini che li popolano. Ma la grandezza, più che nelle cifre, risiede nel valore caratteristico e patrimoniale: le eccellenze, le rarità, il pregio non vanno necessariamente di pari passo coi vettori dimensionali. E questa declinazione, questa presa di coscienza è la più enorme delle potenzialità da valorizzare.

Dovremmo saperlo. Dovremmo credere di poter scegliere l’inconsueto, di esserne in grado, di donarci e spenderci per fare della nostra “casa” un posto migliore. L’alternativa è fingere di combattere altrove, ma con il vorace dilemma di un omerico “nostos” a respirarci addosso. Del resto, lo aveva detto l’oracolo a Odisseo: fuori da Itaca, soltanto miseria.

La bellezza di casa non è altrove. Il suo potere attiene alla forza degli archetipi, di una irriducibile essenzialità. Alla terra natia – ai suoi monumenti, alle sue ferite, alle sue attese e ai suoi spazi – noi apparterremmo anche se non volessimo. Perché la bellezza di casa è folgorazione mistica, è fiabe su dolci cuscini, voce dei nonni, corse nel grano; è famiglia e tesoro, il labaro dell’appartenenza; occhi che ci hanno rapito, quando il cuore era un fantasma tra vecchie rovine.

E oggi, d’estate, così come nei giorni di festa e folklore, ogni figlio torna a riabbracciare la grande madre: a riscoprire il riverbero di certi ricordi, a leggere rughe preziose e sorrisi non ostili su volti sconosciuti, a riappropriarsi di sé. Ogni figlio ritorna. A marciare su poesie immortali, a ricordare il dolore. E a solcare ancora quel corso cittadino, osservando un’arcana simmetria tra il mondo “di dentro” e quello “di fuori”, tra lo sguardo in superficie e quello sull’interiore abisso: l’uomo e il bambino camminare insieme.

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