In Box

In box

Parlare nuove lingue, cogliere la complessità della vita

Ascensione – Anno B

Parleranno lingue nuove (Mc 16,15-20).

In quel tempo, Gesù apparve agli Undici e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno». Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio. Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.

 

In un tempo in cui si mettono paletti riguardo a ciò in cui bisogna credere e ciò che bisogna fare per poter appartenere alla chiesa, non è inutile guardare agli inizi del cristianesimo, quando si scontrarono due linee di pensiero: quella che sosteneva la necessità di rimanere all’interno del giudaismo e delle sue pratiche e quella, espressa soprattutto da Paolo, che spingeva per l’apertura a nuove culture, distinguendo tra ciò che è essenziale e ciò che è secondario.

Da qui la necessità, tra le altre cose, di parlare lingue nuove o, per dirla meglio, nuovi linguaggi attraverso cui raggiungere più persone possibili. La necessità di apprendere nuovi modi di pensare e di esprimersi non è solo da intendere in senso spaziale, ma anche temporale. E’ ciò che papa Giovanni chiamò “aggiornamento” quando indisse il Concilio.

Il mondo sta cambiando sempre più rapidamente e, se pretendiamo, come chiesa, di continuare a mantenere posizioni e linguaggi che provengono dal tempo in cui il cristianesimo dettava i tempi e le regole alle persone, rischiamo di parlare sempre di più una lingua morta, in quanto gli uomini e le donne di oggi vivono secondo altri parametri.

I primi cristiani hanno avuto il coraggio di andare incontro alle altre culture, anziché pretendere di piegare gli altri alla complessità delle regole giudaiche e hanno saputo rinunciare a ciò che sarebbe stata solo una zavorra, anziché una risorsa. Anche la salita di Gesù al cielo, in un tempo in cui abbiamo una visione dell’universo che deriva dalle scoperte scientifiche moderne, dovremmo leggerla piuttosto come una metafora per dire la necessità di guardare il mondo e valutare ciò che accade oggi, non con una visione rasoterra, ma con uno sguardo dall’alto, che riesce a cogliere la complessità della vita, poiché, come ha detto in modo splendido Leopardi, c’è uno spazio infinito da immaginare al di là delle siepi che abbiamo posto attorno al vangelo.

Don Michele Tartaglia

commenta