Giorni da una clessidra. Desideri come sabbia sottile, in attesa di sbocciare dall’altra parte del tempo: quella della luce. Città aperte, fotografia di instabilità latenti. E la pioggia che di tanto in tanto continua a cadere in odori di primavera, sulla pietra nuda dei vicoli. Ma piovono pure ferite e sapori non abituali: un’altra stagione senza folklore né arte, senza “Misteri” né “ingegni”, senza quell’abbraccio intimo così capace di sublimare dolore e misticismo nel materno grembo della tradizione. Catarsi interrotta, silenzioso patire.
L’incubo sempre lì, a portata di mano, coi soliti interrogativi e i soliti “colori” a stabilire come e quando mettere il naso fuori di casa. Ma “casa” in fondo è dove siamo nati: una terra, radici, i luoghi del cuore; identitaria cultura, il primato dell’appartenenza; a una stirpe, a un suolo, a una famiglia. A una regione, a una città.
Declinazione di prossimità. Non bastavano i numeri poco rassicuranti dell’ultimo bilancio demografico Istat – che appena poche settimane fa ha segnato, per la prima volta in assoluto, un numero di abitanti inferiore a 300mila per il Molise – e nemmeno le esasperanti difficoltà del tessuto economico locale, falcidiato dalle ripercussioni pandemiche.
In quest’altalena di cifre e percentuali sono intervenute pure le traballanti proiezioni in tema di contagio, fondate su studi e algoritmi quasi pronti a “braccare” le prime riaperture; letture che suonano un po’ come ammonimento austero per i giorni che verranno, arrivando a delineare scenari a tinte apocalittiche quali conseguenza diretta di una semplice e fondamentale incarnazione: la vita di prima.
Ed è forse proprio questa la madre di tutte le piaghe: percepire l’esercizio della quotidiana esistenza – dalle sue manifestazioni socio-relazionali a quelle artistiche e professionali – quale “eccezione” generosamente elargita.
Un cortocircuito della logica.
Oltretutto, almeno per il momento, di esperienza diffusa nemmeno si tratta: nel settore della ristorazione, ad esempio, hanno infatti potuto diserrare i lucchetti soltanto le attività dotate di spazi all’aperto. E gli altri? Ancora chiusi, senza possibilità di appello. Un mese, ancora. Così è stato stabilito. Agonia prolungata, tra la nebbia di una sorte incerta. Perché, probabilmente, molti esercenti a giugno non ci arriveranno se non sepolti dai debiti, dalle preoccupazioni, dall’impossibilità. Vite appese. A un colore su una cartina, alle farraginosità della macchina politica, ai teatrini amministrativi. Timori inascoltati, senso di vuoto, irriducibili dilemmi. Mentre intanto la stasi e la strana abitudine a questa quotidianità come divelta da se stessa diventano un abisso sempre più fondo, pronto fagocitare coscienze, desideri, progetti. Quasi soffiasse inconsciamente una sorta di educazione subliminale a suggerirci che, in fondo, ristoranti e bar aperti siano un lusso colossale e non già la normalità.
Singhiozzi di libertà, appena al di fuori di un confino domiciliare somministrato “a chiamata”. Certo: in questa fase di timido risveglio servono responsabilità e lungimiranza, per non lasciarsi ubriacare dall’euforia e scegliere così comportamenti prudenti. Ma non bisogna neppure santificare l’ossessivo timore, spesso strano precursore di un intimo e innaturale senso di colpa. Sarebbe un affronto alla bellezza della semplicità. E, probabilmente, è anche di questo che abbiamo bisogno: riabbracciare la semplicità, come fosse il ritorno a un futuro sospeso, a un equilibrio tradito.
Nel frattempo, proviamo – almeno noi – a non tradire noi stessi. Con una coraggiosa coerenza, con un una coscienziosità preziosa. Servirà la luce di ognuno a questo mondo, per ritrovarsi al di là della notte.
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