La riflessione

Quando l’immobilismo è il più letale dei virus: il Molise si salverà con amore e coraggio identitario

La bellezza dei luoghi, la purezza della tradizione. La nostra regione pare dominata da una discrasia costante: potenzialità enormi, “strumenti” insufficienti per esprimerle. Il Covid e i suoi risvolti, poi, hanno reso ancor più manifeste le crepe di sistemi e dibattiti incapaci di dissipare le nubi attorno all’idea di un futuro possibile. Ma la rinascita non può che partire da un esercizio di volontà: battersi “a servizio” di questa terra e non più delle solite baronie di potere, scricchiolanti emblemi della cancrena.

Crepuscoli ocra, cieli d’arancio e di miele. L’orgoglio delle tradizioni, la storia e il folklore. Il freddo che tempra, Apollo che pettina le spighe tra i germogli di colline addormentate. Il mare e i suoi segreti, gli altari del Matese. Molise: una patria per sempre. Terra quasi inconsapevolmente ricca, gravida di potenzialità quanto di contraddizioni; preziose, le prime, endemiche entrambe.

Perché per ogni talento sembra qui esistere una ferita, una lacuna strutturale in grado di ingoiare spietatamente ogni anelito di rilancio: elevatezze paesaggistiche, patrimoni naturali, monumenti; ma anche infrastrutture carenti, marketing territoriale latitante e sullo sfondo l’atavica difficoltà di decifrare possibili volani per l’economia locale. La declinazione del benessere e della serenità sociale resta così una chimera, un’urna vuota; sono piene, al contrario, le sacche dell’insofferenza. Che il Covid ha certamente acuito, sulla scia della crisi finanziaria e della paura del contagio, dei pianti e delle morti.

Quasi 500 dall’inizio della pandemia; quasi 500: caduti, saluti estremi, funerali più o meno celebrati, abbracci distrutti. Numeri da brivido. Ma le percentuali poco confortanti anche da altri lidi provengono. Lo spopolamento e i 3mila abitanti persi ogni anno, la disoccupazione destinata ad aumentare, le aziende in difficoltà costante, la sanità stremata. Spettri ormai arcinoti, appollaiati sugli istanti più cupi di intere famiglie: madri, padri, mogli, mariti, lasciati soli in balia di un futuro in chiaroscuro e delle intime burrasche del patimento; economico, psicologico, emotivo.

Tutto questo mentre lì, agli alti piani del palazzo – ma pure nei cortili – proseguono i teatrini, tra invettive rancorose e dignità occultate, sconfinando addirittura dal “logos”, travalicando beceramente il “pathos” ed esondando infine in flutti di degradata spuma: collerica, violenta a tratti. Scene più affini, forse, a certi racconti d’osteria, a toni e dispute da bucanieri. Uno spettacolo indigesto e un tantino irrispettoso nei confronti di quanti, assediati dai problemi (quelli veri), dalle sabbie della propria trincea combattono quotidianamente per restare aggrappati: a uno stipendio sudato, alla propria famiglia, ai sogni d’avvenire dei propri figli. Alla vita.

Qualcosa, insomma, di molto diverso da una poltrona d’assise; qualcosa di molto distante dalle ritmiche di un’impalcatura politica scricchiolante, gattopardesca.

Eppure, il motivo per non mollare – al di là di ogni variabile e di ogni lacerante amarezza – c’è e in questo risiede: salvare la nostra terra, salvare il Molise.

È una missione non più delegabile, una promessa che chi da amore é mosso non può non raccogliere, soffrire, mantenere. È un atto di volontà, una celebrazione identitaria, un esercizio di responsabilità: restituire qualcosa a questa terra, come fosse un dono di filiale riconoscenza verso nostra madre.

Il cambiamento procede sempre da una scelta. Ecco perché non basta la critica, seppur sacrosanta: bisognerebbe invece e soprattutto testimoniare impegno, sporcarsi le mani anche se col dolore.

Le piazze, i luoghi della politica, le stanze del dialogo sociale sono di tutti e non appannaggio di pochi. Occorre tenerlo a mente, sempre: quando ci si lamenta “a oltranza” di ciò che non va, quando “l’amico di famiglia” o il parente di tredicesimo grado bussano alla nostra porta per elemosinare una preferenza in cabina elettorale, quando rinunciamo a credere in un’idea perché temiamo l’impenetrabilità di un sistema che noi stessi abbiamo contribuito a creare. Sosteneva Montanelli: “La servitù, in molti casi, non è una violenza dei padroni, ma una tentazione dei servi”.

Se dovessimo esser chiamati a scegliere chi servire, domani, non dovremo più nutrire dubbio alcuno: il nostro Molise, la nostra regione, le nostre città, i nostri borghi, sopra ogni altra cosa. E mai più la cancrena, la spocchia feudale: il vecchio che avanza.

foto Luigi Albiniano panorama Campobasso meteo tramonto

È una questione di coraggio, è una questione identitaria. Certo, è forse pure un paradosso proverbiale in un evo che bandisce – temendoli – concetti quali “patria” e “appartenenza”, spesso sacrificandoli sull’altare di quel cosmopolitismo che ingoia ogni bandiera per partorire omologazione: essere cittadini di ogni luogo per essere condannati a un’apolide erranza. Sradicati dall’origine, dal cordone ombelicale dell’amore per la propria terra.

Era il 1898. Così Giacomo Leopardi in “Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura” (Lo Zibaldone): “Quando tutto il mondo fu cittadino Romano, Roma non ebbe più cittadini; e quando cittadino Romano fu lo stesso che cosmopolita, non si amò né Roma né il mondo (…) e quando Roma fu lo stesso che il mondo, non fu più patria di nessuno, e i cittadini romani, avendo per patria il mondo, non ebbero nessuna patria”.

Restiamo, dunque, aggrappati: alle nostre radici, ai nostri luoghi, alle nostre tradizioni locali; a quella vibrazione che ci scuote il cuore ogni volta che da forestieri sentiamo parlare di “casa”. Restiamo. E impariamo a creare futuro, a costruire alternativa; senza mai abbandonare, senza mai lasciarci contagiare dal virus di un fatiscente immobilismo. Impariamo a mettere talenti e professionalità, coraggio e virtù, idee e vocazioni “a servizio” di questa terra. Impariamo a darle la vita che meritiamo, la politica che meritiamo. L’avvenire che troppe volte abbiamo soltanto sognato.

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