L'Ospite

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Il grido dell’abbandonato sulla Croce e il salmo 22

dalì crocifissione gesù

di don Mario Colavita

 

I salmi sono delle preghiere in forma poetica, fanno parte della letteratura sapienziale.

Preghiere per le diverse circostanze della vita e del culto. Più di ogni altro componimento i salmi dicono la vita e il modo di relazionarsi a Dio. Rappresentato il dialogo che il singolo apre con la divinità e nello stesso tempo una descrizione della vita e delle sue vicissitudini.

Il libro dei salmi (in ebraico Tehillim) è una raccolta di 150 componimenti poetici, inserita al primo posto nella terza parte (Ketuvim) della Bibbia ebraica.

In questi componimenti poetici, attribuite al re Davide, l’autore esprime una varietà di sentimenti che vanno dalla riconoscenza al dolore, dalla speranza alla richiesta di aiuto. L’espressione di sentimenti nei confronti di Dio è designata spesso nel testo biblico con il termine tefillà, tradotto generalmente come preghiera.

Il termine “salmi” deriva dalla parola in greco del libro, Psalmoi, che significa canti accompagnati da strumenti musicali a corde.

I salmi fanno parte della vita e della storia del popolo ebraico. Sin da piccoli i salmi vengono imparati a memoria, cantati e decantati per le diverse circostanze della vita.

Recitare un salmo è come passeggiare per la storia del popolo d’Israele è rivivere le vicende lieti e tristi del popolo di Adonaj.

C’è un salmo che è stato oggetto di molta attenzione da parte degli evangelisti Matteo, Marco, Luca e Giovanni. Lo hanno letto e riletto e poi lo hanno accostato agli ultimi istanti della vita di Cristo.

Sulla croce il figlio di Dio, abbandonato grida l’inizio del salmo 22: “Eloì, Eloì, lamà sabactàni?, che significa: Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34; Mt 27,46), secondo la tradizione ebraica citare l’incipit del salmo vuol dire recitarlo tutto.

Gli esegeti dicono che il componimento della passione di Gesù, da parte degli evangelisti, ha come orizzonte le parole dei profeti e il richiamo costante ai salmi.

Ad un lettore distratto il salmo 22 sembra significare la fine di tutto, un abbandono oscuro e tremendo.

In verità leggendo il salmo si scopre che questo abbandono si apre alla lode e alla fiducia in Dio.

L’orante prega e chiama Dio con tutta la sua forza al punto di dire mio esprime già confidenza, fiducia in colui che può aiutare e salvare. Anche se il lamento gli resta lontano, Dio non è assente, per questo l’orante insiste nella sua supplica a non abbandonarlo, a restargli vicino a dargli forza: “In te confidavano i nostri Padri, confidavano e li salvavi; a te gridavano ed erano liberati, in te confidavano e non li deludevi” (Salmo 22,5-6).

Il salmo mette in evidenza una supplica personale e urgente, il supplicante sembra arrivato quasi alla fine per questo chiede con tutte le forze di essere esaudito.

Alla fine del salmo c’è una lode perché l’orante è sicuro che Dio lo libererà dai nemici dipinti come belve (tori, bufali, leoni, mastini): “ma tu Yahweh non stare lontano, mia forza, vieni presto in mio aiuto” (Salmo 22,20).

Il salmo evoca immagini che dicono debolezza, angoscia, disfatta, si evoca l’acqua versata, il cuore di cera, la gola riarsa come un coccio, la lingua incollata al palato (vv. 15-18). Anche i vestiti vengono presi e divisi tra i vincitori: “si divino le mie vesti, sulla mia tunica gettano la sorte” (Salmo 22, 19).

Nei suoi 31 versetti emerge gradualmente come Dio non rifiuta l’aiuto al giusto, lo libera, lo salva e questo atto di liberazione sarà monito per tutti.

Per queste coloriture così accese gli evangelisti vedono nel salmo 22 il paradigma del giusto condannato.

Il salmo “ricrea e generalizza la figura dell’innocente perseguitato dagli uomini, liberato da Dio; lo incarna e lo realizza in una forma ideale ed esemplare” (Alonso Schökel). Nessun meglio di Gesù si Nazaret  entra a pennello nel tipo del giusto perseguitato.

C’è un aspetto teologico sotteso al salmo e riproposto dagli evangelisti, è la situazione di reale ingiustizia e di angoscia, di sofferenza e di liberazione alla luce della fede, e penetra nella profondità del suo mistero di dolore e nel suo paradosso di fecondità.

Gli evangelisti, a detta dell’esegeta Alonso Schökel, non inventano fatti, né li riproducono come dati empirici. “Salgono su un osservatorio più alto, che è il piano di Dio nei confronti del suo Messia. Da qui possono scrutare distanze di una preparazione e di una prefigurazione che attraversa i secoli, e di un influsso che si proietta sul futuro”.

Il salmo 22 è di una profondità tale che può aiutarci alla comprensione del grido dell’abbandonato sulla croce.

Sulla croce il vero grido del Messia è quello dell’amore e del perdono, della con-fidenza nell’opera di Dio.

Nel salmo l’orante non muore, anche se si sente prossimo alla morte, senza via d’uscita, Dio lo salva in extremis. Cristo non si libera dalla morte, ma è il Padre che lo libera al di là della morte, con la Risurrezione.

Riletto in chiave cristiana il salmo 22 ci aiuta alla comprensione della sofferenza dell’innocente. Incorporata a quella di Cristo e illuminata da lui, acquista una forza inedita per denunciare e condannare l’ingiustizia umana.

Nel suo abbandono Gesù diventa simbolo della vicinanza di Dio agli uomini, il grido muto a volte non raccolto o non accolto ci è necessario per aprici un varco nel notte del dolore e dell’ingiustizia.

La scrittrice Eva Zeller (1923) si domanda; dove rimani tu, Dio? La risposta è nelle sue parole:  Dove rimani, o Dio? Dove/ se non/nell’ora nona/ quando egli gridò/ noi siamo/
come un ritratto esatto di lui/ Solo il suo grido/ lo rende ancora credibile/ e noi lo facciamo risuonare/sulla bocca di tutti.

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