La piazza vuota è un grembo gravido di silenzio. Un fiore spoglio, un antico catino pronto a raccogliere le lacrime di chi soffre – col cuore altrove e la testa afflitta da grevi timori – tra le mura di questa città.
Che pare ora una madre rassegnatamente stanca, pronta a sobbarcarsi l’ennesimo schiaffo, l’ennesima frustata, l’ennesima chiusura; l’ennesimo dpcm dai tratti ruvidi.
Colpa del virus, colpa di colpe che non tornano, di discorsi che non sempre quadrano, di responsabilità talmente impalpabili da sembrare liquide; liquide come i pianti di chi pace non trova… Per lutti impenetrabili, per paure insormontabili; dinanzi alle saracinesche abbassate, o allo spauracchio di un futuro tremendamente difficile da coltivare.
Dietro le porte chiuse di case, ristoranti e negozi, il buio: un sipario d’ombra per dolorose solitudini, per esistenze in bilico sul lastrico, speranze spedite in esilio su latitudini troppo lontane. Dietro le porte chiuse di case, ristoranti e negozi, deserti interiori e segreti drammi. L’incubo di non farcela, di non essere abbastanza; di essere anzi nudi, esposti, inermi. Senza alleati. Mentre il nemico mostra i denti e le mani non sanno dove aggrapparsi, se non agli intimi grani di rosari disperati.
E intanto, intorno, continua il valzer di giustificazionismi pedestri, di rimbalzi insopportabili, di “ristori” che non ristorano. E intanto, intorno, non arrossiscono i volti per l’imbarazzo – che già qualcosa pur sarebbe – ma soltanto (e nuovamente) i regimi d’allerta per la nostra regione. Rossa su richiesta.
Per effetto di numeri difficili da contenere, di percentuali poco confortanti, di un’emergenza tremendamente complessa da gestire. Non certo e non esattamente, dunque, per un fantomatico “sensazionalismo” cavalcato da giornalisti in cerca di platee. Perché, sia chiaro: molto spesso i fatti – dominante e ostinato argomento della nostra professione (di fede) – sono già sensazionali di per sè. Ed è proprio questo che dovrebbe preoccupare, soprattutto in declinazione Covid.
Eppure, in questa quotidianità quasi strappata a se stessa, troneggiano l’angoscia e un vago sapore d’agonia. E restano, poco più in là, come in disparte, qualche passo in lontananza, qualche auto per strada; l’eco di una sirena come voce evanescente tra i vicoli bruniti dal crepuscolo. Mentre un randagio in cerca di carezze, nel silenzio di quella piazza vuota, ricorda al mondo quanta cura ci sia nell’amore. Già, l’amore. Dovremmo spenderne di più, tutti; anche e soprattutto adesso, anche e soprattutto per il nostro Molise, per le nostre città, per la nostra gente. Per riscattarci. Per sacrificarci. Per guarirci.
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