Cronache

“Zitti e buoni”

Una scelta etica: sfuggire alla malasanità del Molise

Anche senza vento l’aria fredda sferza la pelle del viso. Questa notte di marzo è gelida e tagliente. Come l’interrogativo di una domanda a cui non sai rispondere. Ho fatto bene?
Le mani in tasca. Sulle punte delle suole delle scarpe ad imitare un falso saltarello sul posto per scaldare un corpo raggelato più dalla paura che dal freddo. Nel gabbiotto di cemento il giovane vigilantes con la barba incerta mangia il suo panino in un rito quotidiano di gesti consueti d’apatica normalità. La tv è accesa su Sanremo. La musica è altrove. Il suo sguardo non cerca mai il mio.

La sbarra di accesso al pronto soccorso è abbassata da trenta minuti. L’ultima volta si è alzata per far entrare un’ambulanza vuota. Ora è appoggiata al fermo metallico in posizione orizzontale. Si riposa, dopo un pomeriggio tiepido di luce e di lavoro frenetico e spaventoso. Su e giù. Su e giù. Una, due, tre, quattro, cinque volte.

Ambulanze a sirene spiegate con dentro corpi di donne e di uomini in cerca di ossigeno, in cerca di un altro scorcio di vita sono entrate nel pronto soccorso dell’ospedale della mia città. Fiduciosi di trovare un prossimo composto da professionisti sanitari pronti all’aiuto, disposti alla cura amorevole. E li hanno trovati. Dignitosi e pieni di abnegazione. Senza null’altro, però. Questo pronto soccorso è diventato un avamposto di quella che un anno fa ci rifiutammo di chiamare guerra e che ora invece accoglie i reduci di una battaglia cruenta contro il virus. Ma anche contro la nostra incapacità di essere sempre vigili nello scongiurare il pericolo. Una stretta di mano. Un bacio nascosto. Un abbraccio al nipotino.

Tutto necessario, certo, tutto una volta di troppo quando ti accorgi che il virus ti ha trovato. Questo avamposto è però privo di ruolo, privo del personale formato al compito, senza gli strumenti adeguati per reggere la marea di malati che avanza a sommergerlo. Soprattutto con poche possibili salvifiche vie di fuga una volta che ti ha accolto. Gli altri ospedali della regione sono già stremati, incapaci di ricevere altri trasferimenti se non si liberano prima quei pochi posti, mai incrementati, sempre così insufficienti. E allora puoi trovarti tragicamente a pregare per la guarigione o per la morte altrui, così da poter sperare di avere accesso ad un’altra speranza. Solo chi è davvero grave può sfuggire al labirinto della sanità pubblica molisana con un elicottero che lo conduca in una rianimazione di un’altra regione lontana.

Chi invece ha davanti a sé altri giorni di malattia stazionaria e di vita in bilico è costretto a restare in questo limbo di incertezza. Una area grigia. Definizione migliore la burocrazia sanitaria non poteva inventare. Pura letteratura. Nel grigiore dell’incertezza di un luogo non deputato a poter ospitare questi malati, ma nel quale sono costretti a galleggiare sospesi. Entrano per essere salvati, ma potrebbero non uscirne vivi. E così è stato per alcuni. Per troppi. Perché non ci sono porte d’uscita accessibili per andare altrove. In luoghi preposti a curare al meglio questa patologia. E ora siamo tutti come tanti Joseph K. dentro questo processo. Che non deve produrre una sentenza di giustizia, ma un risultato di salvezza. Non sappiamo perché, non sappiamo come, non sappiamo chi, non sappiamo dove potremo essere salvati o condannati.

In Molise la malasanità è diventata un processo dove la condanna spetta a tutti, la salvezza a pochi. Perché tutti ne siamo corresponsabili. La nostra passiva accettazione atavica, l’atteggiamento commiserevole di chi crede nell’ineluttabilità delle cose perché da sempre funzionano così, come fossero mosse da un fenomeno fisico e non umano, con logiche proprie e insondabili, contro cui a nulla servono la reazione, la logica razionale, l’indignazione che muove all’azione. Ecco questi sono i nostri capi di imputazione. E la condanna è la morte. Fisica per molti. Morale e sociale per tutti gli altri.

La sbarra del pronto soccorso si alza una volta ancora. Questa volta per far uscire l’ambulanza entrata trenta minuti prima. Dentro l’ambulanza c’è mia madre. Entrata nel pomeriggio perché le sue condizioni si erano aggravate dopo dieci giorni di malattia e solo quattro di terapia domiciliare, ho scelto insieme alla mia famiglia, di tirarla fuori dal limbo grigio della sanità molisana. Ho trovato un posto in un ospedale pubblico del nord. Ho noleggiato un’ambulanza privata. E ora la saluto da lontano. Ha la maschera d’ossigeno e lo sguardo di chi deve affrontare una sfida decisiva. Il portellone scorrevole dell’ambulanza si chiude con il tocco deciso della giovane e sorridente infermiera bardata nella sua tuta bianca. Sembra una astronauta pronta alla sua prima missione. La guardo intensamente. E penso. Porta mia madre lontano da qui. Portala dove c’è ancora una speranza. Dove questa malattia non è una condanna di morte la cui probabilità è il doppio rispetto al resto del paese. Dove l’abnegazione e la dignità del personale sanitario sono solo la premessa per poter fare bene questo indispensabile lavoro perché ci sono anche un’organizzazione, una gestione, una consapevolezza del ruolo pubblico nella sanità. Portala lontana dalla beghe di potere, dai rimbalzi di responsabilità, dai giochi del consenso, dalle indagini tardive, dai conflitti di interesse da così tanto tempo palesi che lasciano ormai tutti indifferenti. Portala lontano da questa zona grigia. Grigia come lo sconforto, come l’impotenza.

Mentre l’ambulanza a sirene spente lascia alle sue spalle l’insegna luminosa del pronto soccorso, poi svolta piano a destra e si allontana lungo il viale, iniziando il suo viaggio di speranza e di salvezza, ripenso un’altra volta alla domanda che mi taglia la pelle più del freddo della notte. Ho fatto bene? L’ho tirata fuori, ma tutti gli altri? Chi non ha il numero giusto nel cellulare, chi non ha le risorse economiche per garantirsi la fuga. Chi non sa cosa lo attende nella zona grigia, pensando che entrarci sia un passo verso la salvezza, invece che l’ingresso nel labirinto. Chi è solo, chi spera che nonostante qualcosa tutto funzioni per sé per gli altri, per il nostro stupido orgoglio di dirci autonomi.
Un ultimo saltello, questa volta vero. Guardo un’ultima volta verso il gabbiotto. Il vigilantes fa un piccolo movimento con il mento.
Mi allontano nella notte gelida mentre a Sanremo i Maneskin cantano “Zitti e buoni”.

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