Tra nuvole e falchi, il cuore che batte più forte. Il cielo come un prato, carezze acrobatiche sul dolore. Dal Molise alla Libia, il tabernacolo di una bandiera: tricolore che arde, la patria come consorte. Per guerra e per amore; un ghigno sbattuto in faccia al destino, in beffa alla morte.
È una poesia di piombo e furore, è sangue immortale, bellezza di un Icaro sublime.
È Giovanni Romagnoli, da Campobasso: aviatore, soldato, capitano indomito.
Le gesta, le imprese, un canto d’acciaio: oggi il suo nome risuona lungo i corridoi di questa città – suo principio e suo tempio – come fosse un brivido sulla schiena dei secoli, come fosse un coro litanico intonato da schiere di beati cherubini, il rombo di un motore infuriato tra nubi, saette e avverse mitraglie.
Vibrava già il sole, in quell’alba di luglio. Raggi d’oro sulla culla di un patriota in fasce: era il 1897, la gioia più grande per papà Salvatore e mamma Filomena.
La famiglia, l’infanzia, i giochi di casa, il profumo della sua terra. Poi quel tuono improvviso, la nebbia più bruna: il “Grande Conflitto”. Gli studi interrotti per servire l’Italia; divisione Fanteria, “Sesia” e “Messina”, e quel primo lustro d’argento fiero sul petto a impreziosire una divisa indossata come seconda pelle.
Ma la gloria del mondo non basta e non basta neppure il cielo se lo spirito è più grande di entrambi.
E dunque ancora ad ardere, di coraggio e passione; per l’onore di un popolo e per vocazione. L’Albania, i Balcani, capitano della Regia Areonautica. Poi, la Libia: squadriglia numero 104. L’ultimo atto.
Dodici aprile 1929. Frammenti di vita, diario di una missione.
L’aereo militare di Romagnoli viene colpito. Ma il genio tiene all’insidia nemica e alla trappola della concitazione: con una manovra disperata, il milite campobassano riesce infatti a far atterrare comunque il velivolo privo di un’elica, tra le impervie dune di Bir Ziden.
In quelle sabbie, insieme a pochi altri, Romagnoli viene però raggiunto e assediato da un manipolo di ribelli: loro gli intimano di arrendersi, lui non cede. E anzi arringa ancora, in quegli attimi tesi, trascinando i suoi commilitoni con ali d’aquila oltre le piaghe della carne. Fino all’ultima pallottola, fino all’ultima lacrima. Fino all’ultimo respiro.
A denti stretti, tra sangue e polvere scrive così il suo sacrificio, col braccio alto come l’onore.
La medaglia d’oro al valor militare alla memoria (1930) sarà dunque l’epitaffio più nobile a sigillare il sepolcro del suo tempo terreno.
Eppure…Eppure questo esempio di coraggio e passione ardita trabocca ancora, oggi, dal graal della storia; nuovamente rompendo gli argini della materia e dipingendo, potente, limpidi scenari di eternità.
Perché Giovanni Romagnoli da Campobasso non è mai morto.
Giovanni Romagnoli da Campobasso è un cavaliere di luce, una cometa accesa sui sogni e sulle tenebre della nostra storia.
Giovanni Romagnoli da Campobasso è l’esempio che ci sprona a resistere pur se assediati, a riprendere la via del volo anche se in caduta; a non arretrare dinanzi al virus della paura, né allo spauracchio della fine.
Giovanni Romagnoli da Campobasso è lode all’eroismo, preghiera da tramandare.
La pietra angolare, l’aurea corona, per il santuario della nostra appartenenza.
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