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Lobby, miliardari, benefattori e ONG: cosa sono i “poteri forti”?

La meccanica "diabolica" nella storia del modello di investimento "occulto" nato negli Usa e esportato in Europa. Corrado Del Torto e Alessio Brina ci spiegano come è nato e come ha preso piede il sistema filantropico delle fondazioni. Chiaramente esentasse.

GLI AUTORI

Corrado del Torto Guglionesi

Corrado Del Torto, 27 anni, residente a Guglionesi dove è anche consigliere comunale, vive tra Guglionesi e Roma. E’ laureato in dietistica e attualmente è dietista e personal trainer ISSA. Il suo interesse: le disuguaglianze sociali nel nostro Paese e non solo.

Alessio Brina

Alessio Brina scrive, scatta e pedala anche 20mila chilometri l’anno, spezzettato tra Salerno, Torino, Cagliari e Vienna — per il momento. Giornalista e divulgatore scientifico ma soprattutto un radicale e curioso ficcanaso. “Se non lo sai spiegare a tua nonna non l’hai capito e sei pure un pessimo nipote”.

 

Perché alcuni gruppi, fondazioni e filantropi sono così influenti? La risposta più seducente è la più intuitiva: per il Dio denaro. Eppure, a tal proposito, vale la pena discutere della loro nascita e del loro sviluppo, considerando che all’inizio della loro ascesa essi hanno incontrato la strenua resistenza di baluardi politici, sia a destra che a sinistra. Parliamo di un modello made in USA, che non ha tardato a espandersi naturalmente nel resto dell’Occidente.

Le fondazioni fiorirono inizialmente negli Stati Uniti agli albori XX secolo. Fra gli stimoli principali vi era il desiderio di mostrare, di fronte alle provocazioni del socialismo, che il capitalismo fosse in grado di promuovere un maggiore e diffuso benessere generale. Al tempo, infatti, i capitalisti non godevano di buona reputazione: nel 1892 il potente imprenditore Andrew Carnegie — per intenderci, colui che ha ispirato il personaggio di Zio Paperone — represse nel sangue lo sciopero dei suoi operai, provocando 16 morti che segnarono l’opinione pubblica dell’epoca.

Nella primavera del 1914 a Ludlow, in Colorado, 11mila minatori scioperarono per chiedere più tutele dal loro datore, un certo John Davison Rockefeller, che da solo controllava quasi il 2% dell’intero PIL a stelle e strisce. Di risposta il signor Rockefeller, da sempre ferocemente contrario ai sindacati, espulse prima tutti gli scioperanti, che dovettero sopravvivere per mesi al durissimo inverno tra le montagne, poi fece intervenire la Guardia Nazionale, che non indugiò all’uso di mitragliatrici. Ben 13 minatori morirono, assieme a 11 bambini e 2 donne. Nonostante le indignazioni, Carnegie varò la sua fondazione nel 1911 e Rockefeller nel 1913. Mentre la Ford Foundation fu inaugurata a livello statale nel 1936 in concomitanza alla grande ondata di organizzazioni operaie.

Com’è possibile che le stesse persone che si macchiavano di crimini contro il ceto operaio iniziassero a sperperare il loro patrimonio verso fondazioni benefiche per “promuovere il benessere e avanzare la civiltà […] a prevenire e lenire le sofferenze; e a promuovere ogni e qualunque elemento del progresso umano”, come sbandierato nel manifesto della Rockefeller Foundation?

Per la loro struttura, le fondazioni decidono in completa autonomia dove, quando e perché spendere i proventi delle donazioni. E a capo della loro amministrazione, curiosamente, vi sono gli stessi miliardari che le foraggiano. La domanda è lecita. Perché mai dovrebbero utilizzare queste strutture? Non sarebbe più semplice donare direttamente dove e come desiderano?

Decisamente no. I vantaggi delle fondazioni sono enormi: anzitutto defiscalizzazione, ma anche ulteriori guadagni, una maggiore influenza e un’immagine decisamente migliore e popolare per il grande pubblico. Grazie al potere esercitato nella politica statunitense da parte di questi miliardari, nel corso dell’ultimo secolo i benefattori americani sono riusciti ad ottenere sempre più vantaggi fiscali associati alle donazioni.

Inizialmente l’esentasse era vincolato solamente ad enti impegnati in ambiti caritatevoli, educativi o religiosi, ma a cavallo del millennio i criteri si sono allargati e a salire sul carro dei privilegiati può essere qualsiasi associazione che eserciti attività non illegali. In questo modo le risorse dei donatori vengono dirottate in settori strategici per mantenere lo status quo ed espandere la propria sfera di influenza: università private, borse di studio e think tanks tra i tanti, dove affermare le proprie idee e muoversi verso dinamiche di dominio sociale.

Inoltre il guadagno delle fondazioni è generalmente favorito dal lauto reddito prodotto dal patrimonio che, essendo netto, si accumula rapidamente. A rimpinguare le casse delle ONG sono molto meno le donazioni e molto di più i proventi dalla vendita dei beni o dall’offerta di servizi, oltre che dai contratti statali. Esentasse pure quelli, che ironia.

Ormai circa il 90% dei redditi delle organizzazioni benefiche USA proviene dai guadagni e il restante 10% da donazioni (Philanthropy, the Nonprofit sector & the Democratic Dilemma – Peter Dobkin Hall). A scanso di complottismi, è rilevante però constatare come questo flusso di denaro non sia sempre destinato a “promuovere il benessere e avanzare la civiltà”.

Nel ventennio 1950-1970, John M. Olin produceva il 20% di tutto il DDT prodotto negli States. Le sue fabbriche riversavano più di 4 tonnellate l’anno di mercurio nelle famosissime cascate del Niagara, mentre a Saltville, Virginia, smaltivano 280 chili di mercurio all’anno disperdendolo nei fiumi. Fu anche rinvenuto uno stagno di 50mila litri di rifiuti tossici, una volta che nel 1970 il DDT — insetticida altamente cancerogeno e nocivo — fu dichiarato illegale.

Tramite la Olin Foundation, dissolta soltanto nel 2005, le Olin Industries finanziavano più o meno indirettamente le organizzazioni che si battevano per la salvaguardia ambientale e che di fatto avrebbero dovuto e potuto ostacolare i loro affari. Una meccanica “diabolica”: risparmiavano miliardi di dollari di tasse investendo in fondazioni che implicitamente contribuivano ad occultare gli affar più sporchi ed opachi. Una doppia beffa, ecologica e fiscale, non diversamente da quanto oggi avviene con le Koch Industries, uno delle realtà industriali più inquinanti del Paese secondo Greepeace.

Ancor più eclatante ciò che realizzò invece la famiglia Sackler, la 19esima più ricca degli USA nel 2017 e generalmente famigerata per il suo impegno filantropico. I Sackler hanno donato al Tate Gallery, Metropolitan Museum of Art, Royal College of Art, Louvre, Berlin Jewish Museum, Royal Opera House oltre che a svariati centri di ricerca universitaria come Oxford, Columbia University, Stanford tra i tanti.

La fortuna dei Sackler deriva in larga parte dalla distribuzione di OxyContin, farmaco lanciato nel 1995 e che da allora ha prodotto un fatturato di 35 miliardi di dollari. L’OxyContin è un cugino chimico dell’eroina ed è due volte più potente della morfina. Per anni, prima di essere finalmente sconfitta in tribunale, la ditta farmaceutica della famiglia Sackler promuoveva presso i medici di base il farmaco non come ultimo ricorso per malati terminali di tumore, come era stato prescritto in precedenza, ma come farmaco per sconfiggere ogni tipo di dolore.

L’OxyContin ha creato milioni di tossicodipendenti e nel 2017 ha causato il 68% di tutte le morti da overdose negli USA. Ci sono voluti più di 15 anni di denunce e battaglie legali per sconfiggere questo cartello legalizzato di narcotrafficanti e costringerli alla bancarotta. Un tipo di narcotraffico, questo, che tutt’ora giova di una storia ventennale di defiscalizzazioni favorite ed auspicate dal lobbismo delle fondazioni.

Dobbiamo domandarci, tirando le somme, se sia meglio permettere a pochissimi miliardari di non pagare le tasse, attraverso l’ipocrita passaggio dalle fondazioni, oppure se imporre le giuste tasse ai potenti, arrichire lo Stato e far decidere ai cittadini come, dove e perché investire.

Suona come una sfida impossibile, oggi più di ieri. Grazie ai social, i miliardari hanno raggiunto un’immensa stima e ammirazione — vedi Bill Gates, Elon Musk, Warren Buffett e Jeff Bezos — ed ammantati di un velo sacro di talento che li ha resi gli ultimi modelli dell’umana specie. Attorno alle loro parole pendono sedicenti filosofie motivazionali, e con esse orde di saltimbanchi pronti a usarle come versi di una bibbia 2.0, aizzando la fiamma di un culto della personalità che in pochi hanno la coscienza di individuare tra le righe di hashtag e le cascate di like.

Ma un regime di resistenza civile, che passi dalla divulgazione di realtà comprovate e poco conosciute, e la denuncia, dove possibile, dei ridicoli abusi di un sistema marcio, sembrano quanto mai proporci un futuro di speranza. Fatto di condivisione e di una nuova dimensione di partecipazione e rivendicazione.

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