La storia come guida

Tra guerra e amore: poema per il monumento di Campobasso ai suoi caduti

L’opera di Luigi Venturini - inaugurata nel 1956 in piazza della Vittoria, nel pieno centro del capoluogo - rende omaggio ai campobassani caduti in guerra, ma rappresenta al medesimo tempo un forte vincolo di identità, l’ancoraggio a una storia da conoscere e recuperare per comprendere meglio le nostre radici, il valore della nostra terra ed il sacrificio dei suoi martiri.

monumento ai caduti campobasso

Un gladio lacera le nubi. Sulla lama il sangue dei santi, il sacrificio dei padri. Una parola titanica, il forziere dei ricordi; dolore che urla nelle zone d’ombra dell’anima. Guerra, Amore, Morte. Campobasso ai suoi caduti: una stele per scalare il cielo, quasi a scrivere ancor più in alto del sole i nomi dei grandi. Un monumento, un sogno, una bandiera.

Lì, nella piazza che per battesimo ha “vittoria”, persevera la testimonianza: gesta intagliate nel marmo, nuda pietra che racconta. Affinché passate le vite resti la gloria, affinché nel vento possano ancora soffiare poesie di coraggio e brutale tenerezza.

Un aeroplano su traiettorie di fuoco, il fante in agguato, soldati in ardimento: c’é quello in assalto, c’è il parà in discesa, c’è quello che regge il fratello ferito. Promesse nel fango, più forti del tempo; spiriti nella burrasca coi cuori in trincea. Lontani da casa e dal sicuro focolare, lontani dall’amata, dagli amici di sempre. La solitudine come abisso e come unica, paradossale compagna; ma intanto il braccio alla patria ed il pensiero a Dio.

Nella nebbia i fucili caricati a piombo e nostalgia: la mano pronta sul grilletto freddo, nel taschino una foto coperta di polvere. Il confine sacro, il filo spinato dei ricordi, uno scudo di lacrime amare eppure in marcia per sfidare il destino: “Italia o morte!” – il grido che rompe il silenzio, la fiamma che avvampa, una preghiera d’immortalità.

La firma di Luigi Venturini sul grande obelisco, dal 1956 a sostituire il “Fiero Sannita” e quelle aquile madri dell’Isonzo e del Piave.

L’arte come celebrazione, le figure scolpite nel ruvido bianco, l’imponenza suprema come il valore delle imprese. E oggi, passando lì davanti, col groppo in gola rammenta il vecchio, guarda invece silenzioso col naso all’insù il bambino; ma all’unisono battono i cuori di entrambi.

Perché quel monumento è colonna di un tempio, è il passato che sanguina e che ci insegna a ricordare chi siamo. Perché questo mondo non basta: siamo tutti militi a difesa di una torre, siamo tutti parte di una storia da tramandare. Siamo tutti capitani chiamati a un voto d’eternità, cavalieri invitati alla mensa dei propri avi.

Fuoco antico, alleanza dinastica, lacrime cadere come petali: in quell’eroico slancio un saldo d’amore, la sublime altezza del dono. In quelle effigi l’azione che diviene leggenda e vanto, poetica di identità. Il fervore aureo di spiriti capaci di consumarsi pur senza clamore nelle gole e nelle retrovie di boschi sconosciuti.

In quelle effigi il senso di una bellezza oscura: impenetrabile come la notte, mistica come il sangue, perfetta come un amore mai detto.

Come un lampo nel buio, da quelle effigi un comandamento: non rinunci, oggi, la nostra memoria a farsi monumento.

 

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