Un natale intimo

L’Avvento ai tempi del Covid: la tenerezza di casa e il potere della tradizione per rinascere “comunità”

Le ripercussioni del virus, purtroppo ancora vivide in Molise, ridisegnano l’attesa del Natale ormai alle porte: distanze, restrizioni, identità “a volto coperto” e timori mai sopiti respirano dentro questi giorni così rappresentativi. Eppure tali dinamiche, per quanto invise, possono suggerirci addirittura una nuova profondità: il fuoco della tradizione e il senso di comunione con la nostra “casa” - terra, famiglia, identità - quali viatici per la rinascita.

Si posa il silenzio. Come neve. Sui cuori e sui pensieri; sulle piazze vuote, d’improvviso così simili a laghi di ghiaccio. 

Avvento: tempo forte della speranza. La potenza del bagliore tra le lame del freddo. A destare dall’ombra gli abbracci intrappolati, i volti coperti; da stracci di stoffa più o meno grezza, da timori ossessivi. Il cenacolo mistico in cui la tradizione è sposa dell’incanto, di un religioso discernimento; di liturgie e preghiere, dei sogni dei bimbi. 

Ma resta, oggi, un tiepido velo. Su scenari inscindibilmente legati al nostro immaginario, su abitudini e sensazioni così vicine appena un “attimo” fa e ora coperte dall’asettica coltre di una forzosa distanza. La pandemia, i numeri, percentuali, diatribe incallite. Ripercussioni istituzionali e dpcm a profusione. Dura lex, sed lex. 

All’orizzonte, dunque, un Natale diverso. Non più auguri sospesi nell’aria densa, tra note d’incenso. Non più vicoli affollati, né voci di festa a illuminare l’attesa; latitano le vetrine sorridenti, i sorrisi liberi, le strade frenetiche. E persistono, al contrario, un certo senso di disorientamento, difficoltà economiche ancor più strazianti per molti, le paure di contagio avvinghiate come una cancrena a questi giorni. Che sembrano monchi, incompleti, ma che sono e rimangono pur sempre nostri.

Ecco perché non bisogna in ogni caso rinunciarvi; ecco perché dobbiamo risorgere, riscoprendo quella forza misteriosamente celata nel velluto bruno della sofferenza. 

Questa regione, le nostre città, le nostre famiglie, hanno già pagato (e stanno ancora pagando) il dazio più amaro al virus e ai suoi strascichi infami: vite, rapporti, legami barbaramente violati da un nemico invisibile. Che scava solchi interiori, che ridisegna i contorni dei drammi e della quotidianità di ognuno. 

Eppure, non siamo soli. Abbiamo, oggi, radici forti in un dolore comune e sulle spalle la responsabilità di un futuro da ricostruire. Qui, soprattutto: nella nostra terra, accanto al nostro prossimo; che – senza troppo indugiare su lontane latitudini – é il commerciante del nostro quartiere, l’artigiano del centro storico, l’anziana vicina di casa, il negoziante trafitto dai nostri stessi problemi. Qui, qui e non altrove troveremo il nostro senso. Qui e solo qui il preludio di una rinascita potenziale, la cometa pronta a rischiarare una via tra le tenebre, il sentiero su cui legittimeremo la nostra supremazia sull’Erode di questi tempi. 

Albero di Natale Campobasso

E sul quel sentiero dobbiamo marciare, combattere, arrembare; anche se il sale arde nelle ferite fresche: presto si scioglierà, dissolto dalle lacrime che tutti avremo pianto. Insieme. Perché questo significa “essere patria”. 

E la patria è come la madre: non si sceglie, nè si può respingere, perché è scritta nel sangue: appartiene ai suoi figli e i suoi figli appartengono a lei. Qui, su questo suolo permeato da una bellezza spesso bistrattata, in queste città autentiche e vagamente tristi, qui noi siamo sotto un’unica insegna. Tutti fratelli. 

Qui, su questo suolo, troveremo conforto…In una vecchia foto, dinanzi a un presepio, nella casa di sempre, guardando verso il saggio Castello che domina la collina, o negli occhi inattesi di chi custodisce empatie sublimi.

Dobbiamo ricordarlo, soprattutto in questo tempo santo: per costruire potere, per recuperare amore. 

Dobbiamo ricordarlo. Riscoprendo ora la forza della tradizione, l’identità nel rito. Dobbiamo ricordarlo. Anche a chi si infervora dinanzi al totem della salute pubblica, salvo poi destinare spiccioli alla sanità e carovane d’oro a voci di spesa quali “digitalizzazione” e “parità di genere”. 

Dobbiamo ricordarlo, contro l’ubriacatura cosmopolita che ci porta a sgualcire il nostro lessico per santificare l’esterofilia di vocaboli quali “smart working”, “recovery fund”, “lockdown”. 

Dobbiamo ricordarlo, in barba a quel rigurgito progressista che vuole “rinnovare” persino litanie e preghiere. Che è un po’ come piantare murales nella Cappella Sistina perché sa di “antico”. 

Dobbiamo ricordarlo, che questo tempo è fatto per rinascere. Come luce, come uomini, come comunità: più forti di lupi e inverni interiori, più forti dei deserti che spesso ci attraversano. 

Questo tempo è il tempo di casa, dello Spirito, della tenerezza. Questo tempo è il tempo da difendere sopra ogni altra cosa. 

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