La riflessione

Duemilaventi ai titoli di coda: imparare dal dolore per aprire alla speranza che viene

Si chiuderà tra poche ore un anno segnato dalla pandemia e da sofferenze epocali, capaci di attraversare distanze, giorni, confini. Il tormento del Covid-19 - che ha dispensato panico e morte in ogni angolo del pianeta - è prepotentemente entrato nelle esistenze di tutti, flagellando anche la nostra regione. Ma in questa disfatta apparente può celarsi addirittura una lezione fondamentale: ricostruire relazioni e sistemi (anche politico-economici) a partite da una maggiore attenzione all’altro e alle sue fragilità.

Un morso all’anima, una coperta di rovi.

Il sipario pronto a calare sui resti del martirio, a celebrare l’agognata eclissi dell’annus horribilis. Duemilaventi, didattica della sofferenza.

Un racconto di ombre grevi e sinfonie d’organo; un viaggio nel girone dei dannati, tra demoni e succubi, tra sinistri presagi e ferite mai dome. Dolore tra nebbie immobili, vertigini da Necronomicon.

Una stasi lunga parecchio, sbriciolata tra i lutti e i drammi chiusi nel mantello di questo nemico invisibile; un nemico che pure abbiamo visto materializzarsi: in una stanza d’ospedale, nelle frenetiche corsie dei nostri nosocomi, negli occhi stanchi, sui volti tesi di chi in prima linea c’è stato: per mestiere, per vocazione, o per quel laccio inviolabilmente sacro che risponde al nome di “famiglia”.

Storie dal “fronte”, quotidiane finestre sul baratro, sul più ostile dei limbi. Su abbracci mancati, su saluti sospesi; sul tempo che non ritorna.

Ore, settimane, mesi claustrofobici; desideri murati, cuori costretti a sanguinare lacrime, come inceppati sotto al peso degli affanni, dei giorni, di un angoscioso attendere. Spazi vuoti, silenzi da riempire. Con una speranza opaca, aggrappata a orizzonti spesso troppo distanti.

Nel mezzo lo schiaffo dei numeri: l’emergenza, il terrore dei contagi, le sirene spiegate, le terapie intensive sature, i reparti in ebollizione. I morti. Tanti.

E, ancora: le solitudini, gli stenti, le incertezze e l’amarezza struggente, la disperazione in un sms. I pianti, i lutti.

Mari che abbiamo navigato in qualche modo tutti, in quest’era tormentata, nessuno escluso. Come individui, come comunità, come terra.

Il Covid ed “funesto” 2020 hanno indubbiamente rappresentato una piaga arrogante e assai crudele anche per il nostro Molise. Hanno seminato strazio e agonia, scavando solchi profondissimi nei recinti della nostra intimità, come pure nelle semantiche della coscienza collettiva. Ma possono addirittura – e, quasi insperatamente – costituire dei maestri; spietati e anaffettivi, magari, ma pur sempre capaci di lasciarci un’eredità da comprendere, da decifrare.

Perché dobbiamo imparare, continuamente imparare. Dalle cadute e dalla nostra miseria, dalle lotte fatidiche coi nostri demoni.

Dobbiamo imparare che non esistono solamente le logiche del più forte e del danaro, dell’interesse e del privilegio per costituire i piloni dei nostri sistemi: politici, economici e sociali.

Nei misteriosi anfratti dell’introspezione, nelle stanze di un segreto silenzio, dobbiamo perciò divenire capaci di scrutare i segni di questo tempo.

Un tempo che ci obbliga alla cura, alla tutela delle fragilità dei più deboli, al perdono e alla riconoscenza, a tenere alta pur nella tempesta la fiaccola della fede, della speranza. Un tempo che ci educa a rinascere: per non cadere ancora, per non morire sotto la scure della paura virale; la più infame delle malattie.

Questo è il tempo per divenire più che uomini. Costruendo sul dolore, accecando giganti e titani. E allora, un giorno, potremo davvero ripensare a questa stagione arcigna, stropicciandola silenziosamente in una smorfia amara tra le labbra. Sentiremo ancora quel dolore sottile, come un’antica carie pulsare improvvisa dal fondo dell’anima. Ma dopo il graffio, verrà una carezza lieve a ridisegnare nuovi sorrisi sui nostri volti.

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