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Perchè non siamo più andati sulla Luna?

La New Space Economy, ovvero la nuova corsa allo spazio. Per più di un trentennio avevamo smesso di puntare il naso tra le stelle e cercare di arrivarci prima dell’altro, o almeno era questa l’apparenza. Ma ci sbagliavamo di grosso. Per quanto tra gli addetti al settore non risulti affar nuovo, l’impresa di colonizzazione dello spazio non si è mai arrestata...

La chiamano New Space Economy. Si legge, in italiano: nuova corsa allo spazio. Perchè per più di un trentennio avevamo smesso di puntare il naso tra le stelle e cercare di arrivarci prima dell’altro, o almeno era questa l’apparenza tra rotocalchi e senso comune. Sembrava quasi che non ci importasse più di esplorare la volta celeste e che l’epopea delle missioni Apollo e Soyuz fosse un evento più-che-passato, archiviato come grande narrazione sportiva. Anno del signore 2020, ci sbagliavamo di grosso.

Per quanto tra gli addetti al settore non risulti affar nuovo, l’impresa di colonizzazione dello spazio non si è mai arrestata. Beninteso, ha sicuramente smesso di fare scalpore in certi termini. Svestiti i panni da primadonna che aveva assunto nel corso della Guerra Fredda, la caccia alle stelle si è ridimensionata in termini più sofisticati. L’antagonismo si è sciolto in collaborazione — vedi il lancio della Stazione Spaziale Internazionale (ISS) nel 1998 — e la collaborazione si è sublimata in un teatro complesso: astronauti, naviganti del cielo europei e americani; cosmonauti, avventurieri dapprima sovietici, poi russi; taikonauti, operatori cinesi, sono tacitamente compagni e rivali in quella che è l’alba di una nuova sfida oltre l’orizzonte.

Stati Uniti, Europa, Cina, India, Russia, Giappone ed Emirati Arabi sono gli attori protagonisti di questa seconda stagione di “Space Race”. Rispetto al prequel — volendo impiegare una metafora cinematografica — il nuovo scenario fatica a celare i motivi economici e geopolitici che sostengono dalle fondamenta lo scacchiere della New Space Economy. L’orbita bassa della Terra è ad appannaggio orientale, suggellato dal Tiangong 3, Stazione Spaziale Cinese il cui lancio è programmato per il 2021. L’interesse strategico, che nel corso degli anni 80’ era gioco-forza subordinato al prestigio scientifico, si è allora spostato su Marte. La Luna rappresenta così un trampolino obbligato per spingersi fin sul pianeta Rosso, e tutte le principali agenzie aerospaziali hanno previsto un allunaggio indipendente non posteriore al 2030, a quasi 50 anni di distanza da quel “piccolo passo per l’umanità”.

Ciò che contraddistingue la nuova corsa allo spazio dalla prima, contesto storico escluso, è anzitutto il traffico di risorse pubbliche e capitali privati. Imprese come la Virgin di Richard Branson, Blue Origin di Jeff Bezos e soprattutto SpaceX di Elon Musk hanno garantito un movimento terra altrimenti impareggiabile, spostando in avanti l’asticella della tecnologia aerospaziale, auspicando la proliferazione di una fitta rete di interessi e restaurando l’hype perduto del brivido di un countdown. Stavolta con il ground control in live streaming.

Un altro fattore da considerare è l’attenzione che le grandi potenze nutrono nella fascia orbitale, popolata dagli hub satellitari sempre più legati ad una ricca fetta di mercato giù sulla Terra. Dopo decenni di grandi rivoluzioni tecnologiche, lo sviluppo delle ICT (Tecnologie per l’Informazione e la Comunicazione) da che verticale — di gap in gap — si sta configurando come orizzontale: l’Internet delle cose. E il network satellitare si propone come una distesa verdeggiante per le avventure imprenditoriali. In ultimo, più esotico ma non di minori prospettive, occorre citare le possibilità offerte dallo sfruttamento minerario dei corpi celesti. Un campo ancora oscuro e poco battuto, dove primeggia la Planetary Resources Inc. di Larry Page, fondatore di Google, il cui scopo è lo studio e il monitoraggio di asteroidi e pianeti per individuare le migliori soluzioni d’impiego.

A metà degli anni Sessanta, nel pieno della Guerra Fredda, la corsa allo spazio era una questione di prestigio e di ostentazione politica. Non vi erano vantaggi funzionali, il numero di satelliti era irrisorio e la loro ripercussione sull’economia terrestre minima. Il gioco era un affare a due tra USA e URSS, che dal dopoguerra in poi aveva monopolizzato la competizione con ripetuti successi, vedi il primo uomo in orbita, Yuri Gagarin. Gli Stati Uniti ricorsero allora ad una mobilitazione di risorse brutale: il progetto Apollo vide più di 400mila individui all’opera ed un finanziamento stimabile in oltre 200 miliardi di dollari attuali, contro i 25 miliardi di budget del 2021. Il programma Apollo, dal 1969 al 1972 — con buona pace dei teorici del complotto  — portò a compimento ben sei allunaggi con equipaggio.

Cifre “astronomiche” per uno sforzo senza eguali che al di fuori del vanto e dei proclami otteneva poco altro. Dal 14 dicembre 1972, quando il comandante Eugene Cernan abbandonò il suolo lunare di rientro dalla missione Apollo 17, nessun essere umano ha mai più messo piede sulla sua superficie. Alla NASA si resero presto conto che, oltre la sanguinosa mole di denaro, affinché Apollo proseguisse sarebbe stato necessario effettuare studi ulteriori su alcune problematiche irrisolte: i gravi effetti sul corpo della lunga permanenza in regime microgravità e l’esposizione ai venti solari su tutte. Inoltre al tempo non erano disponibili informazioni sufficienti per progettare una base permanente o anche solo per ottenere una forma di ritorno economico dallo sfruttamento minerario. E gli strumenti tecnologici erano tutt’altro che all’avanguardia. L’Apollo Guidance Computer (AGC) era equipaggiato con una RAM dalla capacità di un milione di volte inferiore a quella di un comune iPhone odierno, ed una memoria ben sette milioni di volte più piccola.

È bene notare, comunque, che dal 1972 ad oggi la Luna sia stata letteralmente invasa da una variopinta popolazione di sonde, rover ed esploratori non umani. E insomma, per quanto ci ispiri romanticismo e ci riempia il cuore, condurre un equipaggio sulla Luna fosse terribilmente costoso, platealmente rischioso e fondamentalmente inutile. O perlomeno, era.

orazio pinti ritagliata

Orazio Pinti, 26 anni, è di Termoli e vive a Los Angeles. E’ laureato in Ingegneria aerospaziale al Politecnico di Torino e attualmente è Research Assistant, Ingegneria Aerospaziale, a Los Angeles, California

Alessio Brina

Alessio Brina scrive, scatta e pedala anche 20mila chilometri l’anno, spezzettato tra Salerno, Torino, Cagliari e Vienna — per il momento. Giornalista e divulgatore scientifico ma soprattutto un radicale e curioso ficcanaso. “Se non lo sai spiegare a tua nonna non l’hai capito e sei pure un pessimo nipote”

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