Le voci del dolore

Lo strazio dei morti di Covid sui telefonini restituiti alle famiglie “Fatemi bere” “Non respiro” “Nessuno mi aiuta”. Appello per un comitato vittime

Le testimonianze si moltiplicano e il dolore della perdita e dell'abbandono viene condiviso in una chat. L'idea di alcuni figli di vittime del Covid morte all'ospedale Cardarelli, sotto accusa per la mancanza di personale medico, è creare un comitato che raggruppi i parenti. Lo smartphone, unico legame nei giorni drammatici del ricovero, è anche lo scrigno dei ricordi e della sofferenza di chi se n'è andato solo.

Tra i vari effetti personali restituiti alle famiglie dei morti di Covid ci sono i telefonini, che spesso riescono a essere l’unico filo di collegamento tra chi va in ospedale con la polmonite e chi resta a casa – a volte positivo e in isolamento – e non può nemmeno pensare di avvicinarsi al proprio caro ricoverato. Perché di Covid si muore senza una carezza, senza un saluto. Col Covid si trascorrono giorni in un letto di ospedale, in preda alla paura, con la Cpap sul volto, la maschera a Pressione Positiva che mantiene aperte le vie aeree, oppure con il casco di ventilazione. Soli.

I medici e gli infermieri sono pochissimi, mentre i pazienti nelle Malattie Infettive sempre più numerosi. La tecnologia accorre in aiuto e forse mai come in questo caso è preziosa per consentire di poter guardare in volto, anche se a distanza, il proprio padre, la propria madre, un fratello che sta soffrendo e combattendo una battaglia che sovente si perde. Videochiamate, registrazioni, messaggi whatsapp per tenere vivo il legame, per far sentire in tutti i modi possibili una voce amica, il conforto di chi incita a resistere, di chi urla e scrive “Ti voglio bene”, “Ti aspetto fuori”. Quelle parole di cui abbiamo bisogno tutti, tanto più in un letto di ospedale trasformato in trincea, dove per ammissione stessa dei medici in servizio si fa la guerra.

“Qui è una guerra” ha detto al figlio Michele Mancini, deceduto al Cardarelli. Uno dei tanti che non ce l’hanno fatta in questa fase crudele della pandemia in Molise, che sono usciti dall’ospedale chiusi in una bara.

Così si muore di Covid al Cardarelli. “Mio padre chiamava per chiedermi di portarlo via, il dottore mi diceva qua è una guerra”

E’ proprio lo smartphone che diventa lo scrigno del dolore e del rimpianto quando viene riconsegnato alle famiglie, insieme con le poche cose del defunto. Lì sopra ci sono le paure, i bisogni, le grida silenziose affidate a un messaggio a un figlio, a una figlia.

“Quando ho ripreso in mano il telefonino di papà e ho riletto le sue parole, soprattutto quelle scritte poche ore prima di morire, mi è crollato il mondo addosso. E’ stata un’esperienza terribile, che non auguro a nessuno”. A parlare è la figlia di un uomo di 80 anni della Provincia di Isernia deceduto al Cardarelli di Campobasso il 9 novembre. Era stato trasferito in Malattie Infettive una settimana prima con la famigerata polmonite bilaterale. Trovato positivo al coronavirus, aveva iniziato ad accusare i sintomi e per qualche giorno aveva seguito una terapia in casa. “Papà stava per prendere la terza laurea in medicina, materia che lo appassionava moltissimo. Sapeva tutto di ossigenazione, ventilazione, saturimetri. Ne aveva comprato uno per ognuno di noi figli, anche noi positivi”.

E’ stato lui stesso a chiamare il 118 quando si è reso conto che il livello indicato dal saturimetro, strumento inseparabile, scendeva sempre più giù. “Quel giorno, il 2 novembre, è stato l’ultimo giorno che l’ho visto di persona. Poi attraverso videochiamate, tante”. Anche lui, come già accaduto per Michele Mancini la cui storia è stata raccontata dal figlio, ha iniziato dopo qualche giorno di ricovero a lamentare la mancanza di assistenza, la scarsa igiene, il fatto che pur chiamando dal citofono installato sulla parete, raramente qualcuno andasse a vederlo. “Mio padre non faceva i capricci, la situazione era davvero così come descritta, e d’altronde con così pochi medici e infermieri forse è inevitabile. Ma certo un medico o due per turno per 50 pazienti è troppo poco, bisognava pensarci prima, fare qualcosa”.

Su quel telefonino ha riletto i messaggi inviati con lucidità dal padre. “Non respiro”. “Non riesco a respirare, forse questa maschera non funziona bene”. “Chiamo, chiamo, ma non viene nessuno”. Parole strazianti, che dopo la morte assumono i contorni tragici dell’abbandono, la sensazione più diffusa tra i malati ricoverati a detta dei loro parenti. Lì sopra, su quel telefonino, ci sono anche i messaggi inviati ai fratelli che lei ha letto per la prima volta. “Ho sete da stamattina e ora sono le 10 di sera. Ho bisogno di acqua, non ce la faccio più”.

Come lei altri figli, fratelli, familiari che in questi giorni di lutto e impotenza si trovano a dover fronteggiare oltre al dolore sconfinato delle perdita il rimpianto atroce di non aver potuto fare niente. “Continuo a chiedermi se non sarebbe stato meglio tenerlo con me a casa, almeno sarebbe morto con una carezza, un abbraccio, la mano stretta tra le mie. Non avrebbe subito umiliazioni”.

I racconti si incrociano e talvolta si interscambiano, a dimostrazione che la percezione di abbandono è condivisa. Qualcuno sta valutando di rivolgersi alle Procure per avere chiarezza su quanto accaduto durante i giorni drammatici in ospedale. Qualcuno ha già chiamato i carabinieri del Nas, che aspettano di avere la cartella clinica. Ma in Molise procurarsi la cartella clinica non è semplice come in altri ospedali, dove basta la richiesta da parte di un familiare. “Qua servono le firme in originale di tutti gli eredi, e ovviamente in questa situazione è complicato. Chissà quando sarà possibile”.

Intanto alcuni famigliari di vittime del Covid hanno creato un gruppo whatsapp in cui si scambiano esperienze e sofferenze. Proprio attraverso quei telefonini che conservano e archiviano i ricordi e la memoria di chi non c’è più hanno avviato una chat per confrontarsi. “Stiamo trovando molte analogie nelle esperienze vissute anche a livello clinico dai nostri familiari morti” spiega un figlio. Da qui, da questo passaggio di parole e sensazioni, è nata l’idea di costituire un comitato delle vittime del Covid in Molise. “Per noi sarebbe importante, abbiamo bisogno di chiarezza, di ritrovarci, di capire insieme. Anche per decidere cosa fare oltre che per riuscire a sopportare con la condivisione questo momento terribile”.

Chi ritiene che il Comitato sia una idea valida, se non altro per stringersi insieme, può contattare la nostra redazione (info@primonumero.it), il direttore (mvignale@primonumero.it) anche su facebook ai fini di un contatto telefonico.

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