Campobasso

“Io, giovane medico in corsia, ho preso il covid curando i pazienti: abbiate cura di voi, il virus non guarda in faccia a nessuno”

Trentacinque anni, di Campobasso, in servizio in un ospedale del Nord, racconta la sua esperienza da professionista e da malato: "Pur conoscendo la materia, ho avuto paura di morire. Fare una rampa di scala era diventato improvvisamente faticoso: non respiravo". Il suo appello ai più giovani: "Non sottovalutate l'infezione, è potenzialmente mortale per tutti"

Marco è un giovane medico di Campobasso. Ha 35 anni, laureato in medicina e chirurgia all’Unimol, ha intrapreso il suo percorso di formazione prima all’ospedale Cardarelli del capoluogo molisano, poi ha continuato in altri ospedali d’Italia. Chiede un minimo di privacy per questioni deontologiche, richiesta che ovviamente rispettiamo pienamente, ma non esita a raccontarci quello che è stato anche il suo calvario. Nonostante la sua giovane età.

Quando è esplosa la pandemia era al lavoro in un ospedale del Nord dove da subito ha iniziato a prestare la sua opera come medico covid, in qualità di “guardia interdivisionale”, un servizio svolto da medici di “differenti specialità che garantiscono 24 ore su 24 l’assistenza ai pazienti ricoverati nei vari reparti”.

Ed è verso la fine di settembre, proprio durante l’attività di reparto, che Marco entra in contatto con un paziente di cui non si conosceva la positività al coronavirus. Ne viene a conoscenza poco dopo. Dal contatto con quel paziente, trascorrono otto giorni quando arriva il primo campanello d’allarme: la tosse.

Marco in cuor suo sapeva di poter aver contratto il covid. E’ un rischio con cui i medici come lui fanno i conti tutti i giorni. Perché i pazienti che arrivano in ospedale con la speranza di guarire devono curarli e subito: una lotta contro il tempo che al di là di tutte le precauzioni che puntualmente utilizzano, mette la loro vita quotidianamente a rischio.

Si sottopone al primo tampone dall’esito negativo. “Ma sentivo che qualcosa in me non andava. Sarà perché di pazienti covid ne avevo visto già tanti, insomma nonostante l’esito di quell’esame – racconta –  mi sono comportato come una persona potenzialmente positiva e sono rimasto a casa in attesa del riscontro che avrei fatto volontariamente”.

Ed ecco la febbre. Spariti i profumi. Via il gusto. “Mi sono ammalato” ho pensato. La conferma è arrivata con la stanchezza e le difficoltà respiratorie. “Quella sensazione di non riuscire a respirare, non la dimenticherò mai. Non riuscivo a salire neanche la rampa di scala che mi conduce al piano notte del mio appartamento”.

“Non ho mai provato nulla di simile nella mia vita. E sì, lo ammetto: ho avuto paura. Paura di morire e di non rivedere i miei cari che sono lontani, lì a Campobasso. Di morire in solitudine, insomma”.

“Sono state due settimane interminabili. Quello che mi impressiona è che io sono un medico – continua – e dunque avrei dovuto essere più razionale rispetto alla malattia e invece il concetto di essere affetto da in virus potenzialmente mortale mi ha creato ansie spesso ingestibili. Poi la ragione riprendeva il controllo e procedevo ad un monitoraggio autonomo delle mie condizioni perché purtroppo c’è da dire che nessuno si preoccupa di te in quei giorni. Io conosco la materia e ho potuto far fronte, ma chi non è medico sono certo che ha grandi difficoltà in questo senso. Prendevo la tachipirina e all’occasione, quando avvertivo i problemi respiratori, ho utilizzato cortisone ma la paura di peggiorare era sempre presente”.

Venuta meno la febbre e migliorata la tosse, Marco ha eseguito il secondo tampone: negativo. “Ma la scomparsa del virus non ha annientato sintomi importanti che io ho continuato ad avere anche dopo essere guarito come per esempio la mancanza del respiro, la stanchezza. Insomma, tornare ad una vita normale non è stato immediato. E’ stato un processo faticoso”.

Marco alla luce della sua esperienza ha tirato una serie di conclusioni che sono anche il frutto della sua battaglia personale contro il covid: “Manca il personale in corsia – dice e poi la gestione della medicina territoriale andrebbe rafforzata. Le persone che sono a casa devono esser monitorate non si può arrivare in ospedale con una polmonite conclamata”.

Nonostante gli strascichi del virus, Marco è tornato da subito in corsia. Ha indossato il camice bianco senza esitare, per continuare a curare e a restituire speranza a chi si ammala.

A chi è malato, questo giovane medico di Campobasso esprime tutta la solidarietà forte di quanto ha vissuto e quindi consapevole di comprendere ormai appieno ogni sfaccettatura anche psicologica di questa dannata infezione “ma il mio pensiero va soprattutto a chi non ce l’ha fatta servendo gli altri. Ai medici, agli infermieri, ai volontari, alle forze dell’ordine, ma anche a tutti coloro che hanno dovuto continuare a lavorare nonostante i rischi per non fermare il Paese”.

Un invito però sente di rivolgerlo a tutti, soprattutto ai giovani spesso convinti che il virus per loro sia una banalità. “Non è così. Credetemi. Io sono un soggetto giovane e sano, non ho malattie pregresse, né alcuna forma di fragilità fisica eppure i sintomi sono stati spaventosi. Quindi, vi prego rispettate le regole e attenzione massima anche nell’ambito del nucleo familiare. Mascherina e distanziamento sociale sono basilari, specie se si fa vita di relazione per motivi di lavoro o altro. Purtroppo questo virus esiste e non risparmia nessuno”.

Tornerai a Campobasso? “Vorrei tanto abbracciare la mia famiglia che non vedo da mesi, ma adesso non posso. Speriamo di poterlo fare tutti molto presto, senza più paura”.

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