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Social, giornali, violenza contro le donne e victim blaming. A che punto siamo in Italia?

Dopo i recenti casi di cronaca e la celebrazione della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, una giovane dottoressa coglie l'aspetto più raccapricciante del fenomeno e parla di “victim blaming”, letteralmente “colpevolizzazione della vittima”, che avviene tutte le volte in cui qualcuno pensa che la ragazza “se l’è cercata” perché aveva un vestito succinto, perché era ubriaca, perché era sola di notte, perché, perché, perché… Il problema fondamentale è che non esiste nessun “perché” che giustifichi una violenza: nel momento in cui un uomo stupra una donna, vuol dire che lui ha preso la decisione di farlo..."

Alessandra Cappiello ha 24 anni, è di Termoli. Vive a Pisa, dove frequenta gli studi universitari di Medicina e Chirurgia

Alessandra Cappiello

In molti ritengono che ormai il femminismo stia prendendo un po’ troppo il sopravvento nella nostra società, e che parlare di violenza contro le donne ormai sia qualcosa di superato. Ma è davvero così?

Basta ascoltare i fatti di cronaca quotidiana per capire che, purtroppo, in Italia nel 2020 non si tratta affatto di acqua passata.

Tra gli eventi degli ultimi mesi spicca tra tutti il caso di Alberto Genovese, arrestato lo scorso 7 novembre con l’accusa di violenza sessuale ai danni di una 18enne. Durante un party organizzato nel suo appartamento milanese, l’uomo ha trattenuto la ragazza in una camera, l’ha drogata e ha abusato di lei andando avanti per ore ed ore, mentre una guardia del corpo fuori dalla stanza si assicurava che nessuno si avvicinasse.

Eppure, nonostante la lampante colpevolezza dell’uomo, nei giorni seguenti all’aggressione non sono mancati i commenti disprezzanti nei confronti della vittima. Sui Social si legge “per me è la classica ragazzina che vuole spillare un po’ di soldi all’imprenditore ricco di turno fingendo che l’abbia stuprata”, oppure “diciamo che a cappuccetto rosso è andata male per ora ma poi si prenderà un bel po’ di soldini”, e ancora “questa neo 18enne pensava di andare ad una festa all’oratorio?”. La ragazza è stata vittima non solo dello stupro, ma anche di queste persone che hanno deciso di vomitare sulla tastiera il primo insensibile pensiero che passasse per la loro testa. Come se in qualche modo la sola presenza della ragazza a quella festa potesse giustificare la violenza fisica che ha subito.

Tutto questo prende il nome di “victim blaming” (letteralmente “colpevolizzazione della vittima”), e avviene tutte le volte in cui qualcuno pensa che la ragazza “se l’è cercata” perché aveva un vestito succinto, perché era ubriaca, perché era sola di notte, perché, perché, perché… Il problema fondamentale è che non esiste nessun “perché” che giustifichi una violenza: nel momento in cui un uomo stupra una donna, vuol dire che lui ha preso la decisione di farlo.

Ad aggiungere benzina sul fuoco, i giornalisti. Il già abbondantemente discusso Vittorio Feltri su Libero considera “ingenua” la ragazza stuprata, e scrive le agghiaccianti parole “personalmente ho constatato che si fa fatica a sco**rne una che te la dà volentieri, figuratevi una che non ci sta”. Alberto Genovese, poi, non è l’autore di una violenza inaudita, ma è il brillante uomo d’affari, l’illustre imprenditore, “un vulcano di idee e progetti, che per il momento è stato spento”, come l’ha descritto Il Sole 24 Ore, che poco dopo la pubblicazione, vista l’indignazione dei lettori, ha provveduto a scusarsi rettificando l’articolo in questione.

Si tratta della narrativa di genere che puntualmente ritroviamo quando viene commessa una violenza nei confronti di una donna: l’uomo è descritto sempre nei suoi lati positivi, e nel frattempo va quasi compatito perché accecato dall’amore, o dalla gelosia… Così, quelli che sono reati condannati dalla legge vengono in qualche modo minimizzati, romanticizzati. Questo tipo di narrativa è molto pericoloso, perché contribuisce al victim blaming: le vittime diventano poco credibili, vengono allontanate, non ascoltate, come se fossero loro stesse la causa della violenza che hanno subito. Di conseguenza, ci sono sempre meno denunce da parte delle vittime che iniziano ad avere come nemico non solo l’uomo che abusa di loro, ma anche la società.

Con l’evoluzione della tecnologia e dei Social, negli anni si sono sviluppate altre tipologie di violenza contro le donne, come il “revenge porn”, cioè la diffusione di immagini o video intimi senza il consenso della persona ritratta. Si tratta del reato di cui è stata vittima la maestra di Torino, protagonista dei titoli di giornale delle ultime settimane: dopo che alcune sue foto e suoi video intimi sono diventati di dominio pubblico perché un ex compagno ha deciso di condividerli con dei suoi amici, la direttrice dell’asilo in cui insegnava l’ha costretta al licenziamento.

Il problema di questa vicenda è che alcune persone non sanno con chi essere d’accordo: chi ha sbagliato?

Ognuno è libero di vivere la propria intimità sessuale come desidera, ma all’interno di una coppia ci si basa sempre sulla consensualità. Alcuni pensano che la maestra avrebbe dovuto prevederlo (“se l’è cercata”, anche in questo caso), perché lei stessa aveva inviato quelle foto e quei video al suo ex compagno, quindi sapeva che lui ne era in possesso. Ebbene, il revenge porn è un reato codificato dalla legge 19 luglio 2019, n.69 (nota come Codice Rosso), non a caso l’uomo responsabile della diffusione del materiale è stato destinato ad un anno di lavori socialmente utili, e la direttrice dell’asilo è accusata di diffamazione.

Non si tratta affatto di “goliardia” come molti ritengono, ma rappresenta un potenziale distruttivo per la vita della vittima, che purtroppo come abbiamo avuto modo di constatare, nella maggior parte dei casi non viene capita o ascoltata, ma allontanata.

In contrapposizione a questa vicenda, a mio avviso è però necessario ricordarne un’altra: lo scorso agosto il presidente del Consorzio trasporti Basilicata (Cotrab) Giulio Ferrara, nonostante pesasse su di lui una condanna definitiva a 2 anni e 6 mesi per violenza sessuale ai danni di una sua dipendente, è stato rieletto nella sua posizione lavorativa.

La domanda a questo punto sorge spontanea: e se al posto della maestra di Torino ci fosse stato invece IL MAESTRO di Torino? Beh, probabilmente al posto dell’umiliazione pubblica avrebbe ricevuto dei complimenti.

 

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