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Madri e figli piccoli in carcere in tempi di pandemia

A Rebibbia, pochi giorni fa, è stato inaugurato il primo Modulo per l’Affettività e la Maternità progettato all’interno di un carcere. Ma ella stessa settimana in cui si inaugura il modulo per l’affettività, è arrivata la circolare che – causa l’aggravarsi della situazione sanitaria – si sospendono ufficialmente le uscite per i bambini. Fino a data da destinarsi.

Marika Fantauzzi è operatrice sociale presso una Onlus romana che si occupa di minori in pena alternativa alla detenzione, studia editoria alla Sapienza e scrive su questioni legate ai diritti umani.

 

A Roma, pochi giorni fa, è stato inaugurato il M.A.MA. L’acronimo può ricordare il MomA di New York e, in effetti, è stato realizzato dall’equipe di Renzo Piano, ma non è un museo né un polo espositivo. E’, piuttosto, il primo Modulo per l’Affettività e la Maternità progettato all’interno di un carcere. Lo spazio di 28 mq sorge nell’istituto penitenziario femminile di Rebibbia, il più grande dei quattro istituti per detenute presenti in Italia. Sul sito della Polizia Penitenziaria si legge che sarà “un luogo – non appena l’emergenza si sarà placata -, dove le detenute potranno riunirsi con i propri familiari beneficiando di un ambiente domestico, intimo, accogliente e rassicurante, molto diverso dalle tradizionali, affollate e fredde, aule per i colloqui”. A corredo del testo, poi, appaiono foto e video che raccontano come la costruzione di questo “ambiente domestico” sia stato possibile grazie al supporto delle stesse detenute.

Non troppo lontano da dove ora sorge il M.A.MA. c’è la sezione nido di Rebibbia. La struttura ricorda un chiostro di monache di clausura; ci sono aiuole, fiori e persino farfalle. All’interno c’è una sala comune e una serie di “camere di pernottamento”, dove vivono le detenute con i loro figli. Per lo Stato italiano, infatti, fino al terzo anno di età al bambino è consentito vivere all’interno di un carcere.

In Italia, secondo l’ultimo rapporto dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione pubblicato da Antigone, le donne detenute rappresentano appena il 4% dell’intera popolazione carceraria, ossia 2.702, su un totale di 61.230. Di queste, 36 hanno con sé i loro figli.

Dal rapporto emerge come “la tipologia di reati per cui le detenute vengono ristrette in carcere – reati contro il patrimonio, reati contro la persona e reati legati alle droghe – sono un chiaro indicatore di una popolazione che, anche prima del periodo di carcerazione, vive in condizioni di marginalità e in contesti segnati da violenza”. La gran parte delle detenute sconta, considerata la tipologia di reato, un periodo di detenzione inferiore ai 6 mesi. Ovvero un periodo che permetterebbe l’accesso alle misure alternative alla detenzione. Da tutto questo, di conseguenza, deriva che la custodia penale per le madri e per i figli dovrebbe essere il più possibile limitata.

A seguito della prima ondata di emergenza da Covid-19, per evitare che il virus dilagasse all’interno delle carceri (come è successo in America o in Iran), sono state adottate una serie di misure di contenimento, come il ricorso alla detenzione domiciliare e la sospensione della pena. Le stesse sezioni nido delle carceri si erano praticamente svuotate, troppo alto era il rischio per i bambini e le loro madri, troppo basso era il livello di guardia all’interno delle strutture. Caso esemplare è stato quello di una madre e un bimbo che, fra aprile e maggio, erano rimasti gli unici a scontare la pena all’interno della sezione nido di Rebibbia.

Ma, se fuori dal carcere si era deciso, quasi a tavolino, che la pandemia fosse finita a luglio, anche dentro agli istituti penitenziari si è fatto un veloce rewind. I famosi “boss” scarcerati (non 300 come si era detto, ma 3 -sì, tre), son rientrati e i numeri dei reclusi hanno ricominciato a lievitare. E a fine settembre le madri detenute nel nido di Rebibbia erano di nuovo 10, con altrettanti bambini.

A fronte di tutto questo, è chiaro come ben prima della pandemia lo Stato si sarebbe dovuto far carico di evitare che un bambino varcasse la soglia di un carcere. A questo riguardo, numerose sono le proposte di legge depositate in Parlamento da associazioni ed enti no profit che da anni lottano affinché vengano costruite case famiglia alternative alla detenzione. Nonostante questo, prima, durante e dopo la pandemia il quadro rimane invariato. Anzi, è peggiorato. Prima dell’emergenza, infatti, una volta a settimana i bambini potevano uscire. Ogni sabato mattina, i volontari di A Roma Insieme, da più di vent’anni si caricavano i marmocchi nel pullman e li portavano lontano dalle mura del carcere.

Nella stessa settimana in cui si inaugura il modulo per l’affettività, è arrivata la circolare che – causa l’aggravarsi della situazione sanitaria – si sospendono ufficialmente le uscite per i bambini. Fino a data da destinarsi.

C’è un principio cardine al quale si rifà il sistema penitenziario danese. Si chiama “normalisation” e implica una cosa molto semplice: le condizioni nelle quali viene scontata la pena deve corrispondere agli standard offerti dallo stato alla comunità in generale. Fra questi vi è il diritto alla salute e, ovviamente, il diritto all’affettività.

Costruire moduli per la maternità, rendere le celle – camere di pernottamento – più accoglienti e riscaldate, ridipingere le pareti di una sala comune, è utile e anche  necessario ma non mitiga l’immagine di una madre terrorizzata perché, durante una pandemia mondiale, è costretta a crescere il figlio in galera.

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