di don Mario Colavita
Nel vangelo ci sono circa 69 riferimenti monetari. Tra gli evangelisti, Matteo è il più diligente nelle citazioni. Ben 39 sono i riferimenti che confermano la circolazione di monete al tempo di Gesù: dagli spiccioli di piccolissimo valore, usati dalla vedova, ai sicli d’argento del Tempio, alle monete di bronzo usate per la spesa quotidiana e a quelle d’argento pagate a Giuda Iscariota.
Il denaro, di cui si parla nella parabola, era una moneta d’argento di circa 4 grammi di uso romano messa in circolazione in Palestina dopo la conquista da parte di Pompeo (I sec a.C.).
Un denaro era la paga giornaliera di un operaio, con due denari il samaritano assicura una pensione completa di 2/3 giorno al malcapitato.
La parabola di Matteo della giusta retribuzione e del padrone buono è nell’orizzonte della ricompensa. La pagina precedente Pietro chiede a Gesù quale sarà la ricompensa per coloro che hanno lasciato tutto e lo hanno seguito. Sullo sfondo c’è anche una sorta di diritto alla ricompensa maggiore per un lavoro maggiore: ho fatto di più mi spetta di più etc… ma l’ottica evangelica è diversa, il conteggio di Dio è molto diverso da quello degli uomini.
La parabola si apre con una chiamata al mattino presto e una promessa di retribuzione giusta. Il padrone dà lavoro a tutti e promette la giusta retribuzione. A dire il vero è un proprietario terriero un po’ strano: chiama ancora operai alla fine della giornata. Ma a lui non importa spendere di più, importa chiamare, incontrare i lavoratori, metterli in relazione con la vigna.
La fine del racconto è strana e bello allo stesso tempo. Rispettando la legge di Mosè: “Darai all’operaio il suo salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole” (Dt 24,15) il padrone paga, dà il giusto ai lavoratori. A lui non importa spendere, importa dare a tutti il giusto per vivere bene.
Sono i lavoratori della prima ora che mormorano perché il padrone ha dato lo stesso denaro agli ultimi.
Qui si innesta l’insegnamento evangelico: “Amico, io non ti faccio torto […] sei tu invidioso perché io sono buono?”.
Il Padrone è buono e giusto, ma c’è un piccolo particolare: gli uomini hanno “occhio malvagio-invidioso” (è la traduzione greca di poneròs in opposizione a buono).
L’invidia è una brutta cosa in-videre (vedere di cattivo occhio) non ci aiuta ad essere discepoli del Maestro, anzi ostacola il cammino.
L’uomo invidioso non ha capito il dono del Padre, cerca di avere e desiderare sempre di più per sé, escludendo il fratello.
L’insegnamento del vangelo capovolge il criterio di retribuzione e valutazione: il Padre non dà secondo i meriti delle persone, ma secondo i loro bisogni.
La ricompensa di coloro che rispondono alla chiamata del Signore non si misura sulla bilancia del diritto, ma unicamente sulla bontà di Dio.
Una catechesi pasquale dello pseudo Giovanni Crisostomo invita alla riflessione: “Chi ha lavorato fin dalla prima ora, riceva oggi il giusto salario. Chi è venuto dopo la terza, renda grazie e sia in festa; chi è giunto dopo la sesta, non esiti; non subirà alcun danno. Chi ha tardato fino alla nona, venga senza esitare; chi è giunto soltanto all’undicesima, non tema per il suo ritardo. Il Signore è generoso, accoglie l’ultimo come il primo. Fa misericordia all’ultimo come al primo, accorda il riposo a chi è giunto all’undicesima ora, come a chi ha lavorato fin dalla prima”.
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