Un pezzo di storia

Amarcord ferrovia: da Pitruccio il pescivendolo a Federico il banditore. Tutti i personaggi della Campobasso-Termoli che fu fotogallery

Un racconto in prima persona carico di aneddoti di Giovanni De Fanis, per anni capotreno sulla tratta che da domenica 9 agosto verrà riaperta

Ormai è fatta. Domenica 9 riapre, dopo quattro anni di chiusura, la linea ferroviaria Termoli-Campobasso. Sulla stessa, il pomeriggio del 25 novembre 1993 ho svolto per l’ultima volta il mio servizio di capotreno prima del pensionamento.

Fui io stesso a chiedere di concludere su quella tratta l’attività professionale iniziata oltre trent’anni prima al Nord, come a volere dare un ultimo abbraccio a luoghi e persone che per una singolare somma di circostanze erano diventati col tempo parte di un vissuto da non disperdere. Fu per questo, lo ricordo bene, un «giro di andata e ritorno» malinconico, come se il mondo che mi lasciavo alle spalle sparisse senza mai più tornare.

 

Quando, molti anni dopo, fu disposta la chiusura della linea, quel triste presagio si materializzò ai miei occhi, e, con esso, tutto ciò che quella ferrovia aveva rappresentato per il Molise e le sue genti, da quel lontanissimo 12 marzo 1882, giorno dell’inaugurazione della Termoli-Larino, primo segmento della Termoli-Campobasso.

È grazie ad essa, infatti, che la nostra regione poté uscire da un atavico isolamento e collegarsi alla modernità. La Termoli-Campobasso, seguita poi dalla Campobasso-Benevento con i rispettivi innesti nella ferrovia adriatica e nella Foggia-Napoli, unirono stabilmente e più velocemente il territorio molisano con l’ex capitale del Regno, con il Nord e il Sud del Paese, determinando innegabili benefici alla sua economia.

La stazione di Casacalenda

Con la ferrovia partì da qui anche tanta povera gente verso terre e continenti lontani con la speranza di una vita migliore e di un sospirato ritorno. Purtroppo non sempre raggiunti. Fuori del Molise – sostiene Norberto Lombardi, storico dell’emigrazione – vive oggi stabilmente un altro Molise.

A partire dalla metà degli anni Settanta del Novecento, le facilitazioni accordate dalla Regione ai pendolari, l’entrata in esercizio della Bifernina e gli ancora troppo lunghi tempi di percorrenza, determinarono il crollo vertiginoso dell’affluenza dei viaggiatori, avvicinando il declino della linea.

Tra pochi giorni però il treno, come l’araba fenice, risorgerà dalle sue ceneri riprendendo a circolare (fino a quando?), e man mano che la data prevista si avvicina, i ricordi di un lavoro che ho molto amato prendono il sopravvento sulle attese.

Per molti anni il “Sottocentro Personale Viaggiante” di Termoli, di cui facevo parte, ha avuto in turno il treno dei pendolari del mattino. Questo significava una levataccia per essere pronti al via delle 5,50. Ma quello, almeno per me, è stato il treno, insieme all’umanità che lo ha frequentato, che maggiormente sono entrati nella sfera dei ricordi più duraturi.

capotreno Giovanni De Fanis

Nella mia esperienza di lavoro in ferrovia solo sulla Termoli-Campobasso è accaduto che il treno si trasformasse in una sorta di casa e i suoi viaggiatori nella famiglia che l’abitava. Ed ecco allora, malgrado il lungo tempo trascorso, alcune immagini di quel tempo.

Le stazioni di San Martino e di Ururi sono ancora oggi isole sperdute nella vastità delle Piane di Larino. Qui il tracciato ferroviario, frutto di chissà quali compromessi, disegna una sorta di andirivieni che pare il gioco dell’oca. Eppure in quella solitudine vi hanno trascorso parte della propria vita tanti ferrovieri, sovente, insieme alle loro famiglie.

Anziché stazioni, per le Fs erano “assuntorie”. Il personale addetto (assuntori e ausiliari) non era inquadrato nell’organico Fs, ma assunto a contratto. Ne passerà del tempo prima che, con le lotte, cessasse per loro quell’assurdo precariato per entrare con pieno diritto nella grande famiglia degli allora duecentomila e passa ferrovieri. Anch’io fui solidale con loro partecipando agli scioperi. Da allora furono chiamati “gestori”, poi assistenti di stazione, infine capistazione.

Campolieto, ponte sulla Termoli-Campobasso

Ed è proprio in veste di “assuntore” che negli anni Cinquanta alla fermata di San Martino in Pensilis scese da Napoli Olimpio per assumere la titolarità dell’impianto. Al suo seguito la famiglia. Andato in pensione gli subentreranno i figli Ciro e Benito. In quella stazione rimarranno fino al sorgere degli anni Ottanta, dopo averla trasformata da scalo abbandonato in un giardino fiorito.

Nei primi anni Settanta tra i viaggiatori che salivano a San Martino vi era Antonio, un abbonato che nei giorni feriali si recava negli uffici del capoluogo a sbrigare le pratiche per conto di quanti non avevano tempo per perdersi nei labirinti degli uffici regionale. Un altro suo “collega” partiva da Larino. Le malelingue del treno li chiamavano “sbrigafaccende”.

Negli stessi anni alla fermata di Ururi, il gestore Ferdinando, più che curare il giardino, nei ritagli del servizio provvedeva amorevolmente alle sue cinque galline ovaiole. Le quali, chissà perché, smettevano di produrre uova nella quantità abituale tutte le volte che rientrava per riposo dalle parti di Napoli dove risiedeva. Scoprì presto che a sottrargliele non erano gli animali selvaggi, ma il collega che gli subentrava e da allora non se ne dava pace.

A Larino il treno iniziava a riempirsi. In buon numero i pendolari. Tra essi Alberto, che prestava la sua attività d’impiegato all’Ufficio del Registro del capoluogo. Non dimenticherò mai la sua compostezza e riservatezza a bordo. Davvero una persona amabile.

Arrivando a Casacalenda era Federico, l’anziano, indimenticato banditore civico, a darci il buongiorno con gli annunci pubblicitari che un potente altoparlante dalla sommità del paese riversava in quella sorta di cavea in cui si trova la stazione: «Alla General Markétt (sic) troverete …». Oppure «È arrivato Pitruccio da Termoli con tutte le qualità di pesce: triglie, merluzzi, …».

A Bonefro-Santacroce il treno faceva il pieno di viaggiatori e una parte era costretta a stare in piedi. A convergere lì per raggiungere il capoluogo regionale una consistente massa di pendolari, per lo più studenti e impiegati, provenienti da tre grossi comuni: Santacroce di Magliano, San Giuliano di Puglia e, naturalmente, Bonefro. Qui, di tanto in tanto, saliva il mio amico e compagno Donato Del Galdo.

Storico dirigente sindacale dei braccianti, comunista, arrestato durante le lotte per la terra degli anni Cinquanta, al ritorno a San Giuliano dopo il lavoro nelle miniere del Belgio si era messo a scrivere le sue memorie di militante. Puntuale da lui ogni volta la richiesta di acquistare una copia del suo ultimo libro. Un dovere per me farlo.

A Ripabottoni, con il personale, ad aspettarci trovavamo Antonio, il procaccia postale, col quale immancabilmente si scambiava, dopo il saluto, qualche parola sul tempo e il lavoro nei campi. Entrambi argomenti rientranti nella sfera del suo interesse quotidiano. Quello del procaccia, infatti, per lui era un impegno secondario. Il suo vero lavoro era badare ai pochi capi di bovini che allevava e alla campagna.

Dopo qualche tempo da lì iniziò a viaggiare per Campobasso anche suo figlio Giovanni, un giovanottone educato e gioviale, assunto in Prefettura. Lui, come altri abbonati, collocati negli importanti uffici pubblici del capoluogo, erano per noi dei preziosi punti di riferimento per accedere e districarci negli impenetrabili meandri della burocrazia regionale al momento del bisogno.

Procedendo verso Campobasso, appena dopo il monumentale ponte, ecco la fermata di Campolieto. Qui a rappresentarla più di tutti era il gestore titolare Ludovico, per tutti Vico. Una persona mite, benvoluta, un pagliaio di capelli ricci e fitti sulla testa.

Sempre insoddisfatto della vita, aveva l’aria di uno che stesse lì per lì per buttare giacca e cappello e abbandonare il servizio. Mi dicono, invece, che sia rimasto al suo posto fino all’ultimo giorno consentitogli. Nella solitudine di quella stazione gli faceva compagnia, finché è vissuta l’anziana madre, sempre presente dietro i vetri dell’alloggio di servizio a ogni arrivo di convoglio.

Dopo Campolieto ecco Matrice. Rari i viaggiatori, tra essi, tutti i giorni per un lungo periodo, due graziose ed educate studentesse: le figlie del mugnaio Cofelice. Il cui molino, tramite il gestore della fermata, ci riforniva tutte le volte, dopo averli debitamente prenotati e pagati, di un numero imprecisato di sacchetti di farina di ottimo grano duro appena molito. Al ritorno poi li avremmo ritirati per le orecchiette e i fusilli del giorno dopo.

Un ultimo stop a Ripalimosani, dove in tanti anni non ho mai visto salire una persona, e poi via a Campobasso: «Signori, fine corsa. Si scende». In tempo per raggiungere scuole e uffici.

Non è tutto. Di questo amarcord fanno parte i macchinisti, nostri abituali compagni di viaggio. Con loro mai uno screzio e sempre una perfetta collaborazione. Qualche nome: gli anziani Rocco Marinucci, termolese, il decano dei sindacalisti rossi, il socialista Nino Angarano, Rossini, Pece.

Poi i più giovani: Iammarrone, Grieco, Zippo, Giovanni Minicozzi, sindacalista CGIL, ancora lontano dal diventare noto volto di Telemolise, Antonio Battista, attivo sindacalista Cisl, prima di diventare fino a un anno fa sindaco di Campobasso.

Guidavano macchine che da queste parti hanno fatto la storia dei mezzi di locomozione diesel dopo la trazione a vapore: le automotrici Aln 556, prive di intercomunicanti, nate negli anni Trenta e ancora in servizio nella prima metà degli anni Settanta, fino alle più moderne Aln 668 e 663 tuttora in esercizio.

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