Neural network

Niente utero, niente opinioni? L’aborto fra scelte, metodi, diritto e salute secondo Alessandra e Vittoria

Dalla pillola del giorno dopo all’aborto farmacologico, dalla legge italiana a quello che succede nel resto del mondo fino ai medici obiettori. Vittoria Tarantini, laureata in farmacia, e Alessandra Cappiello, studentessa di Medicina, entrambe termolesi, affrontano un tema delicato e in parte ancora “tabù” in questo nuovo spazio gestito dai giovani di Neural Network.

Vittoria Tarantini, 26 anni, è termolese. Vive a L’Aquila. E’ laureata  in Farmacia e Farmacia Industriale, attualmente è tirocinante in Assicurazione Qualità in ambito farmaceutico. Appassionata di tossicologia e farmacologia, attenta alle nuove scoperte e tecnologie in campo scientifico e farmaceutico

Vittoria Tarantini

L’Oms definisce la salute riproduttiva come uno “stato di completo benessere fisico, psicologico e sociale […] in tutto ciò che attiene il sistema riproduttivo, le sue funzioni ed i suoi meccanismi”. Dal 1994, infatti, viene considerata come una delle irrinunciabili componenti del concetto di salute. A tal proposito risulta importante evidenziare come la salute riproduttiva si basi anche sulla possibilità di poter regolare liberamente ed in modo sicuro la propria fecondità, attraverso l’utilizzo dei metodi contraccettivi e di conseguenza decidere volontariamente di interrompere uno stato gestazionale.

Oggi, al pari del passato, nonostante ci sia stata un’importante evoluzione dei comportamenti riproduttivi, si assiste ancora alla presenza di grandi limitazioni sia dal punto di vista morale ed etico che nella realtà materiale dei fatti, causate in buona parte da fattori culturali.

Nei paesi sviluppati, il progresso sociale ed economico ha portato ad un progressivo rinvio della genitorialità e di pari passo è andata progredendo la precocità delle abitudini sessuali e questo ha implicato la necessità di ricorrere sempre più a strumenti di controllo della propria vita riproduttiva.

Tuttavia, a livello mondiale l’aborto è illegale ancora in alcuni stati, localizzati prevalentemente in aree in via di sviluppo e questo “diritto negato” provoca ancora molte morti a causa degli aborti clandestini. Di 56 milioni di aborti che avvengono annualmente in tutto il mondo, circa 25 milioni (ossia il 45%) si verificano in condizioni non sicure.

Questo dato, nel ventunesimo secolo, risulta enormemente scoraggiante, sia perché dimostra che non abbiamo ancora attuato un processo di educazione alla salute sessuale e la disinformazione risulta ancora dilagante sia perché la salute riproduttiva dovrebbe rappresentare una tematica prioritaria all’interno della salute pubblica, in quanto la gravidanza ed il parto in Italia sono la prima causa di ricovero per le donne e, inoltre, gli indicatori relativi a questa particolare sfera della salute sono utilizzati a livello internazionale per valutare la qualità dell’assistenza sanitaria di un Paese.

Se facciamo un “salto nel tempo” vediamo che l’aborto è stato legalizzato in Italia nel 1978 tramite la legge n. 194 e grazie al monitoraggio che il Ministero della Salute  ha effettuato da quel momento, si è  potuto mettere in evidenza che il numero di Ivg si sia più che dimezzato nel corso di oltre 35 anni, e con esso tutti gli indicatori di abortività volontaria che ne conseguono. Anche tra le donne straniere, che da sempre rappresentano il target con una più elevata propensione all’aborto volontario, si assiste da qualche anno ad un declino del fenomeno.

Gli indicatori di abortività spontanea presentano dunque un trend crescente rispetto all’aborto chirurgico, ciononostante l’Italia risulta un Paese che ha uno dei tassi di abortività più bassi dell’occidente, dato sostenuto dal fatto che nel 2017 si segnava una percentuale di obiettori di coscienza del 68,4%. Nel 2012 l’Istat ha rilevato 103.191 interruzioni volontarie della gravidanza, 6.850 in meno rispetto al 2011. L’Italia è uno dei Paesi dell’Unione europea con il più basso livello di abortività volontaria. Nel 2012, il tasso risulta pari a 7,6 aborti per 1.000 donne di età 15-49 anni (7,8 per mille nel 2011). (Istat)

Il tema dell’aborto rimane dunque uno dei più attuali dal momento in cui paesi del Sudamerica o l’Irlanda hanno ottenuto questo diritto solo nel 2019.

Ecco perchè occorre fare un po’ di chiarezza. Innanzitutto, l’aborto farmacologico non è da confondere con “la pillola del giorno dopo”, la quale è definita un contraccettivo d’emergenza. Occorre precisare che è un metodo di aborto alternativo a quello chirurgico. L’aborto farmacologico (o aborto chimico) infatti, consente di interrompere la gravidanza entro le prime settimane di gestazione e prevede quindi l’assunzione di due farmaci. Il primo è la pillola RU-486, il cui principio attivo è il mifepristone, il secondo, che viene assunto 48 ore dopo, è appunto il misoprostolo che ha il compito di provocare l’espulsione del materiale abortivo, espulsione che avviene tramite sanguinamento e contrazioni. Il mifepristone è un ormone steroideo che agisce, bloccandolo, sul progesterone, un altro ormone steroideo appartenente al gruppo degli ormoni progestinici che favorisce il mantenimento dello stato di gravidanza. L’efficacia del mifepristone è aumentata dall’associazione con una prostaglandina, il misoprostolo.

Dai dati raccolti dall’Istat è emerso che l’aborto farmacologico può ritenersi un trattamento sicuro e, indubbiamente, meno invasivo rispetto all’aborto chirurgico. Studi effettuati sulla popolazione hanno anche evidenziato come la corretta esecuzione dell’IVG, eseguita quindi nei termini di legge, presso strutture autorizzate e da medici competenti e specializzati riduca notevolmente la mortalità delle madri, infatti ad oggi, le morti dovute ad aborti non sicuri rappresentano circa il 13% di tutte le morti materne.

Ovviamente, come per qualsiasi altro tipo di trattamento medico, non si possono escludere effetti collaterali e complicanze che tuttavia risultano essere abbastanza rare.

Per delineare ancora meglio il “quadro italiano” è importante esprimere un punto di vista riguardo la questione dell’Umbria, una regione in cui si registra il 66% di medici obiettori di coscienza e in cui la giunta ha deciso che le donne, per esercitare un loro diritto fondamentale, non potranno più usufruire del day hospital o del domicilio, ma dovranno affrontare tre giorni di ricovero. Vista la delicatezza della situazione e i risvolti emotivi e psicologici che l’aborto farmacologico può avere su una donna, questo eccesso di zelo appare nato non per sostenere la donna, ma evidenzia la possibilità di gravare negativamente sulla privacy della persona che nella maggioranza dei casi non vuole che questo evento della sua vita sia di dominio pubblico.

Inoltre, facendo riferimento al contesto sociale e emergenziale che stiamo vivendo risulta “paradossale” questa presa di posizione dato che gli ospedali sono spesso congestionati e degli spazi ridimensionati per garantire le misure di distanziamento necessarie a limitare i contagi.

Sarebbe quindi preferibile permettere le dimissioni dopo la somministrazione del primo farmaco, dato che le dimissioni volontarie vengono decise da più del 90 % delle donne e magari molte delle risorse derivanti dalla spesa di tre giorni di permanenza in ospedale potrebbero essere destinate alla cura psicologica della donna, al dialogo con la famiglia o con il partner che potrebbero aiutare in questo momento traumatico e sostenere sia prima che durante e dopo il trattamento il benessere emotivo della paziente.


Alessandra Cappiello ha 24 anni, è di Termoli. Vive a Pisa, dove frequenta gli studi universitari di Medicina e Chirurgia

Alessandra Cappiello

Se proviamo a pensare ai motivi per cui una donna potrebbe decidere di abortire, ci vengono subito in mente i più eclatanti, per esempio una gravidanza concepita durante una violenza, oppure una gravidanza portata avanti da una tossicodipendente che rischia di compromettere lo sviluppo dell’embrione che porta in grembo. Ma non bisogna commettere l’errore di pensare che le ragioni per cui una donna arrivi a prendere una decisione del genere si esauriscano qui.

I motivi che spingono una donna ad abortire possono essere molti. Cosa certa è che le decisioni personali e private vanno sempre osservate con silenzioso rispetto, in particolare se si tratta di questioni delicate come un’interruzione volontaria di gravidanza.

Quello dell’aborto è un tema molto dibattuto, in larga parte non ancora accettato nella società di oggi. Lo vediamo ad esempio sui social, dove spesso si trovano post e commenti contrari all’aborto scritti, peraltro, molte volte da uomini. In questi casi immagino la tanto amata Rachel Green, una delle protagoniste della serie tv Friends, che ben 19 anni fa affermava “no uterus, no opinion” (“niente utero, niente opinioni”).

Nonostante i pareri discordanti che si scontrano ogni giorno su questo tema, l’aborto è una pratica medica riconosciuta dalla legge. Nello specifico, la legge 22 maggio 1978 n.194, poi confermata dal referendum del 1981, ha depenalizzato e disciplinato le modalità di accesso all’aborto.

L’art.4 della 194/78 fa riferimento a “[…] donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito […]”. Le donne che si trovano in una (o più) di queste condizioni possono abortire entro i primi 90 giorni di gestazione.

Tuttavia, nonostante l’aborto in Italia sia legalizzato da oltre 40 anni, l’obiezione di struttura, peraltro non ammessa dalla legge 194 (solo il 65,5% degli ospedali con reparto di ostetricia e ginecologia offre il servizio di IVG – interruzione volontaria di gravidanza), e la dilagante obiezione di coscienza, tendono a limitare di fatto il diritto alle scelte riproduttive e alla salute di molte donne.

Ricorrere all’aborto è probabilmente una delle decisioni più difficili che una donna possa prendere, non priva di conseguenze psicologiche ed emotive. Ma una donna che affronta una situazione del genere, nella maggior parte dei casi si trova a dover fare i conti anche con difficoltà pratiche: in Italia 7 ginecologi su 10 si oppongono all’applicazione della legge 194/78, motivo per cui nel 2012 21mila donne su 100mila si sono rivolte a strutture di altre province, e di queste il 40% è stata addirittura costretta a cambiare regione. Il Molise, nello specifico, presenta la percentuale più alta d’Italia di ginecologi obiettori di coscienza (93,3%) e Isernia rappresenta una delle province italiane in cui è considerato praticamente impossibile abortire.

Il passo indietro compiuto dall’Umbria qualche settimana fa in merito alle modalità di esecuzione dell’aborto farmacologico, rappresenta un esempio importante delle difficoltà che le donne si trovano ad affrontare nel momento in cui decidono di abortire. In Italia, ad esempio, solo 5 regioni (Lombardia, Toscana, Emilia-Romagna, Lazio e Puglia) offrono la possibilità dell’aborto farmacologico in Day hospital.

La differenza di organizzazione tra regioni in merito all’IVG è tangibile, ne è un esempio il fatto che dopo 2 settimane dall’imposizione dei 3 giorni di ricovero per l’aborto farmacologico attuata dall’Umbria, la Toscana ha risposto autorizzando la somministrazione dei medicinali previsti per questa pratica addirittura fuori dagli ospedali, in strutture ambulatoriali che siano autorizzate dalla legge 194. Si tratta della prima regione in Italia a compiere un passo così all’avanguardia.

Alla luce di questi ultimi eventi, si evince che in merito alla tematica dell’aborto c’è molta confusione, data probabilmente dal fatto che le ultime linee guida a cui si fa riferimento risalgono a 10 anni fa. A tal proposito, infatti, a seguito delle polemiche sollevate dalla delibera umbra, il ministro della Salute Speranza ha chiesto un nuovo parere al Consiglio superiore di sanità perché sia “favorito l’aborto farmacologico là dove possibile”.

L’obiettivo, quindi, dovrebbe essere quello di permettere alle donne di affrontare nella maniera meno stressante possibile una situazione di per sé già dolorosa e sofferta, permettendo così una corretta esercitazione del diritto alla salute riproduttiva di cui, secondo la legge, dovrebbe godere ogni cittadino.

commenta