Anche davanti alla misura cautelare che è stata emessa dalla Distrettuale antimafia di Campobasso, quando ha visto arrivare gli agenti della squadra mobile nella sua casa a Rione Sanità, per arrestarlo ha provato a far valere il suo curriculum di agente della polizia di stato. Questa volta non ha funzionato: gli uomini della questura di via Tiberio non hanno battuto ciglio.
Come con un ‘nome’ qualunque macchiato da un qualunque presunto delitto, dopo averlo messo a tacere rammentandogli con acuta finezza che lui no “non era un poliziotto”, lo hanno invitato a seguirli perché gli spettava, sì anche (e soprattutto) a lui, “la procedura di rito”.
Quindi il passaggio alla sezione della Scientifica con foto e impronte. Le formalità successive negli uffici della squadra mobile e poi la custodia ai domiciliari.
Ciro Palumbo, il poliziotto infedele, che nell’inchiesta dei carabinieri e della guardia di finanza viene fuori come il corriere che poteva aggirare eventuali controlli certo della forza di quel tesserino che ha disonorato senza indugio.
E senza indugio gli uomini della squadra mobile – quando il sostituto Vittorio Gallucci e il capo della procura Nicola D’Angelo li ha delegati all’arresto – hanno restituito a quel tesserino, riconsegnato circa due anni fa, l’onore e l’onorabilità che il 61enne aveva violato dal momento in cui da nemico dell’illegalità ne era diventato invece amico.
Tanto da mettersi al soldo del clan Capocelli e portare da Napoli a Bojano assieme al figlio del boss anche un chilo di cocaina e cinque chili di hascisc.
Noleggiava auto per sviare eventuali accertamenti e assicurava al clan che si era insediato a Bojano, trasporti in sicurezza dalla vicina Campania. Era convinto di poter sfuggire a qualunque verifica e di questo era solito vantarsi. Non aveva fatto i conti con i poliziotti, quelli veri. Né aveva tenuto in debita considerazione la missione che per fortuna riguarda la stragrande maggioranza di loro: perseguire i delinquenti, chiunque essi siano, non diventarne complici.
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