La chiamavano festa del lavoro

La rivoluzione (‘sgonfiata’) dello smart working: “Non ho più orari e sono pure sotto pagata”

Altro che conquista e svolta innovativa, in realtà il famoso lavoro agile incentivato dal Governo per evitare il propagarsi del coronavirus dimostra in alcuni casi i propri limiti. La testimonianza di una donna: "Sono stata messa in cassa integrazione e dovrei percepire 700 euro al mese, ma gli stipendi sono in ritardo. In più, con lo smart working, sono stata costretta ad acquistare una serie di strumentazioni. Ovviamente a spese mie". Anche uno studio americano certifica: il lavoro da remoto si allunga di 3 ore.

Non c’è dubbio: è un 1 maggio anomalo. Non solo perché anche oggi sono vietate le gite fuori porta, le grigliate con amici e parenti per rispettare l’obbligo di restare a casa. Ma anche perché il lockdown imposto per evitare il propagarsi del coronavirus ha congelato settori importanti dell’economia, il lavoro legale e pure quello illegale e precario.

La quarantena forzata ha fermato paradossalmente pure le attività che consentivano ai lavoratori in nero di racimolare qualche centinaio di euro da portare a casa, soldi utilizzati per fare la spesa e per pagare le bollette. Situazioni estreme si sono registrate soprattutto in alcune zone d’Italia come Napoli, dove tantissime persone vivono di espedienti (basti pensare ai parcheggiatori abusivi). In questo caso la ‘fotografia’ della festa per eccellenza consacrata al lavoro assume una declinazione tragica.

Per chi invece un’occupazione ce l’ha, l’inizio della quarantena ha significato un profondo cambiamento nelle modalità di operare in azienda: si lavora a distanza, da casa. Lo stesso Governo ha suggerito e incentivato quello che con un termine inglese viene definito smart working che ha sfruttato le potenzialità ipertecnologiche dell’epoca in cui viviamo.

L’inizio della ‘pacchia’? Una comodità e un risparmio di tempo e denaro perché, ad esempio, si riesce ad evitare il consumo di benzina e lo stress da traffico? In realtà non per tutti il lavoro da casa ha comportato benefici. Anzi, è stato quasi l’inizio di un incubo per una dipendente di uno di quegli enti che aiutano le imprese. Il 9 marzo è stato il suo ultimo giorno di lavoro in ufficio. Poi l’Italia è stata dichiarata zona rossa ed è scattato il lockdown.

Qualche giorno di ferie ‘forzate’, poi la ripresa dell’attività – appunto – in modalità smart working. “Non esistono più orari, si lavora di sabato, a volte anche la domenica”, racconta lei a Primonumero. E’ stanca, sfiduciata ma “non voglio perdere il lavoro che ho e che mi consente di aiutare la famiglia”. Ecco, la famiglia. “Lavorando in smart working a volte non riesco nemmeno a parlare con i miei figli perché i ritmi sono elevati, a stento riesco a preparare a loro e a mio marito il pranzo e la cena”.

Telefonate, messaggi sul telefono, mail che arrivano a tutte le ore del giorno, in orari impensabili e che richiedono ovviamente una pronta risposta. “A volte non riesco neppure a finire di sparecchiare la tavola e devo ‘correre’ al computer per qualche conferenza on line, per rispondere a una mail urgente…”, continua.

“Nonostante ciò, io sono in cassa integrazione e guadagno 700 euro al mese che fra l’altro non percepisco regolarmente: gli stipendi sono in ritardo. Come se non bastasse – aggiunge – sono stata costretta ad acquistare alcuni strumenti per poter lavorare da casa. Ovviamente tutto a spese mie. Per fortuna avevo già la rete Internet a casa, altrimenti avrei dovuto attivare anche quella e spendere altri soldi. Tutto per lavorare dalla mattina alla sera e senza essere pagata”. Quindi l’auspicio: “Speriamo di tornare al più presto alla normalità“.

E che dire di quei dipendenti in nero che hanno continuato a lavorare da casa e non sapranno neppure se saranno pagati?

Oppure delle donne lavoratrici che sono anche madri di bambini piccoli, le più stressate di tutte: un occhio al pc, un occhio ai figli impegnati nei giochi o nella didattica a distanza, la nuova ‘frontiera’ delle scuole che non riapriranno fino al prossimo settembre. Probabilmente sulla ‘porta ‘d’ingresso’ alla fase 2 si troveranno davanti la scritta “perdete ogni speranza, o voi che entrate”. Perchè non è per niente facile badare ai bambini (che magari piangono, hanno fame o hanno sete, vogliono salire in braccio, devono essere cambiati perchè si sono sporcati o perchè hanno fatto la pupù) o occuparsi della casa e concentrarsi per lavorare. Le misure del Governo (bonus baby sitter o congedi parentali) sono considerate insufficienti: con questa epidemia i nonni non possono essere il prezioso supporto della famiglia.

Storie che ridimensionano fortemente l’auspicata rivoluzione dello smart working, ne dimostrano i limiti e l’esponenziale ‘capacità’ di ulteriore sfruttamento dei lavoratori. “Con lo smart working il lavoro si allunga di tre ore”, il calcolo di un recente studio svolto negli Stati Uniti che ha confermato il maggiore affaticamento e lo stress per coloro che lavorano da remoto.

Certo, c’è pure qualche (forse rara) eccezione.

“I miei capi – racconta una giovane donna che svolge la professione di ingegnere – sono insoddisfatti dello smart working, pensano che limiti fortemente il confronto che è fondamentale per il nostro lavoro. Io invece sono contenta: il lavoro agile mi ha salvata, mi ha consentito di evitare il licenziamento e i rischi per la salute che si sarebbero potuti presentare andando in ufficio dove era impossibile mantenere il distanziamento sociale, le scrivanie sono a meno di un metro di distanza le une dalle altre“.

L’impressione è che si andrà avanti per un bel po’ con questa modalità di lavoro. Del resto il decreto del Governo dello scorso 26 aprile raccomanda infatti “il massimo utilizzo di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza”.

Viva il lavoro, viva il Primo maggio, una delle feste più ‘svuotate’ di significato di questo nuovo millennio.

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