L'intervista

Sopravvissuto al Covid, la malattia che uccide e ti lascia solo. Il miracolo si chiama sanità pubblica: “Sono ancora vivo perché sono italiano”

Il primo giorno a casa dopo le dimissioni dal Cardarelli e quasi un mese di terapia intensiva, in coma farmacologico. Il dottor Gianni Serafini, paziente 1 di Termoli, ha contratto il virus in una forma gravissima. Trova la forza di raccontare la malattia, il lavoro dei medici, gli incubi, la paura ma anche la speranza “alla quale non dobbiamo rinunciare”. Con la consapevolezza che “se non fosse stato per il sistema di questo Paese, magari pure imperfetto ma unico, oggi non potrei raccontarlo”.

Una lunga permanenza in terapia intensiva, in coma farmacologico, intubato, attorniato da monitor eternamente lampeggianti a sorvegliare battito, respiro e funzioni vitali. Dopo tre settimane così, attaccato a un respiratore che insufflava ossigeno nei polmoni malati, Gianni Serafini ha molti chili di meno e molti incubi in più. La voce ancora debole, fioca, fatica a parlare ma non si risparmia, accetta lo sforzo – enorme – prima di tutto per dire grazie a “chi mi ha assistito, incessantemente”.

Sono stati bravi, straordinari” racconta il primario di Otorinolaringoiatria del San Timoteo, il paziente numero 1 di Termoli, finito di corsa all’ospedale Cardarelli di Campobasso il 3 marzo con una infezione da nuovo coronavirus molto grave. “Cinque giorni prima di quel martedì stavo sciando con mio fratello in Trentino, pensarci adesso è incredibile”. Come è incredibile ricordare quel viaggio sulla neve, “io e mia moglie siamo andati soli, in auto. Non so davvero come sia potuto accadere, in albergo, quando, come. E’ successo e basta, adesso mi sembra un altro mondo”.

Per i sopravvissuti la linea di demarcazione fra il prima e il dopo è netta, tagliente. Per lui, che sarebbe potuto essere una delle decine di migliaia di vittime per Covid in Italia – e ne è consapevole – quel confine è il primo martedì di marzo, il giorno in cui sarebbe dovuto tornare a lavorare in ospedale e invece ha avuto febbre e insufficienza respiratoria.

“Sono convinto che se avessi ritardato di un solo giorno non staremmo qui a parlare” ammette. “Stavo morendo, stavo smettendo di respirare. Quando mi hanno fatto il prelievo non era sangue quello che veniva fuori”.

Anche qui trova parole di riconoscenza per chi ha capito, ha spinto per il trasferimento con l’ambulanza il prima possibile. Il primario del Pronto soccorso di Termoli, per cominciare. “Nicola Rocchia è stato uno dei principali artefici di questo miracolo. Quella mattina ci siamo sentiti, mi ha interrogato, ha compreso subito e ha detto devi andare immediatamente, ha allertato il 118”.

Di miracoli ce ne sono stati altri. Hanno i nomi, i volti dei medici e degli operatori del Cardarelli, quell’ospedale che Serafini conosce bene per essere primario non solo di Termoli (dove l’unità operativa complessa di Otorino è stata cancellata dal Piano Operativo 2016-2018, e per la cui riapertura esiste una petizione finora inevasa) ma anche di Campobasso. L’accorpamento dei reparti, la “riorganizzazione” seguita ai tagli sulla scia del deficit, hanno massacrato posti letto e personale. Ma resistere, anche in condizioni così complesse e precarie, fa parte dei miracoli. Vale tanto più ora che negli ospedali si opera in condizioni difficili, con turni disumani e rischi altissimi. Eppure nessuno si tira indietro.

“Questa emergenza era imprevedibile e gli stessi operatori della sanità si sono trovati a coprire tutto il servizio come per la prima volta, senza poter contare su esperienza, né attrezzature, né certezze. In questa situazione non esistono garanzie e ho visto medici e infermieri fare un enorme lavoro ogni giorno partendo dal nulla per salvare le vite. Hanno salvato me e tante altre persone, comprese quelle arrivate da fuori”.

Il riferimento è ai pazienti bergamaschi curati in Terapia Intensiva, il reparto diretto dal dottor Flocco. “Professionisti eccezionali, come i colleghi di malattie Infettive dove sono rimasto gli ultimi giorni in attesa delle dimissioni”.

“Sono stati bravi tutti, straordinari, lo ripeto. Ma questa è una malattia che non ha un vaccino e nemmeno una cura. Avrei potuto non farcela”. Al protocollo terapeutico ormai stabilito dal ministero della Salute, i dottori del capoluogo hanno aggiunto il farmaco sperimentale utilizzato a Napoli,  il Tocilizumab, l’anticorpo monoclonale dal nome impronunciabile che gli italiani hanno imparato a conoscere attraverso giornali e tv. “Lo hanno usato anche su di me: E’ andata bene” osserva.

Lunedì scorso, quando è uscito da Rianimazione, un applauso lungo del personale ha salutato la barella che attraversava in direzione contraria la porta dietro la quale la vita e la morte giocano a scacchi. “Lo ricordo, ero frastornato ma conservo la sensazione di quel momento – confida – e credo che anche per tutti loro vedere il risultato di tanto lavoro sia stato emozionante. E forse c’era anche la necessità di scaricare la tensione. Perché credetemi, la tensione lì dentro è altissima non solo per i pazienti, ma per chi ci lavora”.

Nella sua stanza in Infettive, isolato e avvicinato solo da personale bardato come nelle guerre stellari (“questa è una malattia della solitudine” sintetizza efficacemente), senza contatti, senza telefonino (era contaminato e lo hanno dovuto gettare via), il dottor Serafini ha scoperto che anche la moglie era positiva ed era stata male.

“E’ stata male anche lei, solo in quelle ore ho preso consapevolezza di quello che ora accaduto. Lei da sola a casa, con la febbre alta, seguita al telefono dalla Asrem. Gli amici sono stati premurosi, l’hanno chiamata di continuo. La vicina di casa le ha preparato per un mese intero da mangiare, è stata incredibile: le lasciava il cibo fuori, in cortile, perché mia moglie come tutti i positivi al Covid non poteva incontrare nessuno”.

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Il dottor Serafini durante la manifestazione di sensibilizzazione alla prevenzione delle patologie dell’udito 2019 

Anche ora che è tornato a casa continua a starle lontano. “Si è negativizzata, ma siamo in attesa del secondo tempone di verifica. Il coronavirus è una esperienza di malattia che ti lascia completamente da solo. Non puoi essere assistito da nessuno, gli stessi operatori sanitari hanno accessi limitati alle camere dei malati. Questo è uno degli aspetti più dolorosi”.

La solitudine è fatta di pensieri che ti torturano, che rimandano alle persone care, come i figli. “Tutti e tre fortunatamente stanno bene, uno lavora in ospedale a Modena ed è ovvio che ci pensi di continuo. Corre rischi pesanti. Se fosse capitato qualcosa a loro non avrei potuto fare nulla, questo pensiero ossessivo è come un incubo, ti lascia la consapevolezza che siamo davvero tutti soli rispetto a un nemico che non riusciamo nemmeno a vedere”.

Gianni Serafini ora è guarito, è – come si dice – una persona che ha gli anticorpi, avendo superato l’infezione. “E’ una malattia terribile, io l’ho presa nella maniera peggiore, potevo morire. Capisco il terrore perché non sai mai cosa ti può capitare, capisco la paura anche di chi sta bene e ha paura di ammalarsi. Sono giuste, inevitabili, le misure di restrizione sociale. Ma io sono guarito, e molti altri guariscono. Quello che mi sento di poter dire è che non dobbiamo sentirci senza speranza pur avendo a che a che fare con una cosa fitta di incognite”.

Esiste un parametro, in fondo, che può farci sentire più fiduciosi. Si chiama sanità pubblica, e il primario di Otorino, che da sempre fa la sua battaglia in difesa dei servizi assistenziali e del diritto alla cura, che ha attraversato anni burrascosi di cesoie che hanno rimodellato (al ribasso) gli ospedali del Molise, lo dice convintamente.

Viviamo in un Paese, non ce lo dobbiamo mai scordare, in cui se uno si sente male per strada viene portato in ospedale e curato. Non dobbiamo pensare che questo, che a volte diamo per scontato, capiti dappertutto”.

Di esempi contrari ce ne sono a bizzeffe, e uno il dottor Serafini ce l’ha “in casa”. “Mio cognato che vive a New York è terrorizzato, perché sa che qualora dovesse contrarre il virus e stare male rischierebbe tantissimo. Non è detto che lo curino, e ne è consapevole. E sto parlando di una persone che in teoria ha tutte le garanzie, è un professore universitario, ha la doppia cittadinanza. Ma ha paura, perché in America non ti danno le medicine, non sempre ti curano, i dati sui decessi diramati sono di gran lunga inferiori alla realtà: ci sono tantissime persone che muoiono a casa, dimenticate, e nessuno lo sa”.

Se esiste una lezione, in questa pandemia che ha cambiato il pianeta e (forse) anche l’umanità, è che i diritti non sono uguali dappertutto e la vita non ha lo stesso valore dappertutto. Lui ora vuole dimenticare, scomparire per un po’, riappropriarsi della sua esistenza che per un soffio non gli è stata portata via a 61 anni. Ma trova la forza di dire un’ultima cosa, “perché è importante, e io che ora mi sono trovato dall’altra parte, ho invertito il ruolo di medico con quello di paziente, posso dirlo”.

Il suo è un appello alla speranza, e anche alla “fortuna” di essere italiani. “Noi ci dobbiamo ricordare ogni giorno che abbiamo un sistema che salva ogni cittadino di questa Nazione, che prova a salvare ogni persona, anche la più piccola, la più insignificante. Che cura ogni cittadino fino alla fine, fino alla guarigione, e quando non riesce a farlo perché di Covid si muore anche, questa è una malattia che uccide le persone, comunque ci prova”.

“Il nostro sistema – conclude – pur con le sue imperfezioni, i suoi sprechi talvolta vistosi, le sue ingiustizie, è un sistema di sanità pubblica che punta a salvare ogni vita con ogni sforzo possibile. Se non fosse stato per questo davvero non so se oggi sarei qua a raccontarlo”.

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