Lo stato e la storia

Mattarella solo all’Altare della Patria, per una nuova Liberazione

Guardate questa foto. Un uomo incarna e dà voce nel silenzio e nella solitudine di un luogo solitamente animato dalla folla chiassosa e festante di un popolo che ricorda nella data del 25 aprile la propria liberazione dal giogo nazi-fascista, tutte le moltitudine delle voci libere, contrastanti, discordi, allucinate, sagge, ignavi, utopistiche, prudenti, sognatrici, perigliose, fioche, ma pur sempre libere, perché democratiche, della Repubblica.

Un uomo che non diserta, ma anzi presidia il luogo della memoria e della riconoscenza di chi ha combattuto e ha resistito. Testimonia che lo Stato c’è e ricorda a tutti noi da quale sacrificio ha tratto origine la Repubblica.

Nonostante la scialba comunicazione burocratica di un triste sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei Ministri che per oggi aveva annunciato con malcelata soddisfazione l’assenza di ogni tipo di celebrazione, compresa quella della deposizione della corona sull’altare della Patria da parte del Presidente del Consiglio e del Capo dello Stato.

Nell’accostare quella circolare ministeriale tronfia di una lingua scialba e priva di linfa vitale e democratica alla foto che guardiamo ammirati vi è la perfetta definizione dello iato. La separazione ineludibile fra chi interpreta il potere come rivincita farsesca e che ha arraffato quella cadrega grazie al gioco ironico e beffardo del destino che ha piegato un popolo e lo ha distolto dall’amore per la politica e dalla consapevolezza della sua preziosità fino a convincerlo che l’uno vale uno, ovvero che l’uomo qualunque, il passante senza storia e ideali, lo zelig senza casa ideologica e senza valore e competenza potesse meglio rappresentarlo e proteggerlo nell’affrontare le sfide della Storia e chi il potere lo incarna da una vita, a rischio della vita e a cospetto della morte di un fratello sotto i colpi dell’antiStato, come presidio ultimo della democrazia e della libertà patrimonio di tutti.

Solo in quel deserto di voci e di rappresentazioni di altre figure istituzionali e nello splendore retorico e marmoreo di un’opera architettonica che nonostante i natali frutto di un compimento risorgimentale vacuo e i desideri di gloria di una casata regale che ha poi tradito se stessa, il suo popolo e la patria, appartiene oggi al paesaggio e alla memoria collettivi della nozione repubblicana, quell’uomo dal passo elegante e sobrio ci rende più sereni nell’affrontare il dramma che la Storia ci ha chiamati a vivere.

Eppure se da un lato un sollievo ci carezza l’orgoglio identitario di cittadini della Repubblica, anche ai più laici e meno inclini di noi alla retorica nazionalista, un altro pensiero ci agita. La consapevolezza che le riserve della buona politica democratica e liberale possono esaurirsi e che non potremo più attingere ad esse per chiamare alla massima responsabilità repubblicana uomini o donne così miti, colti e pacificatori.

Un pensiero che ci deve inquietare e spronare a scelte nuove.

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