Diventare “teco vorrei”

La sfida dei tempi contro egoismi e zuffe da tastiera: identità per “risorgere” dal sepolcro del virus

Gli “effetti collaterali” del Covid-19. La divisione, la caccia agli untori, i maldestri attacchi a giornalisti e concittadini minano una serenità già duramente provata dall’isolamento forzato e dagli sviluppi della pandemia. Nell’appartenenza e nella tradizione un fervido sostegno per vincere la sfida dei tempi. 

Il sacrificio è la patria dei forti; la perseveranza il graal dei santi. Dovremmo averlo imparato ormai, noi italiani: animi arditi e avvezzi a risorgere, insieme, da ceneri e guai. Ancora più forti, ancora più gagliardi; in spirito e virtù. Imperatori di un destino, discendenti di vestali e d’eroi.

Dovremmo aver compreso come, in fondo, ci siano solo due modi di discernere il disagio, la calamità, la sventura: maledirne i contorni oppure arrembarne i ponti.

Coronavirus, l’isolamento e gli altri “rimedi”. Frammenti di una quotidianità d’improvviso stravolta, reclusa dietro la grigia patina di giorni terribilmente uguali, appesantiti e resi immobili da una nebulosa d’incertezza, dalla caparbia vigliaccheria di un nemico invisibile. Un nemico che, evidentemente, non abbiamo ancora imparato a combattere del tutto.

E la Sanità, stavolta, non c’entra. Perché di queste settimane – divenute nel frattempo mesi e vissute a bordo di altalene estenuanti – resteranno ferite capaci di trascendere persino il legittimo timore del contagio e delle sue “angherie”: le trincee emotive, gli assalti più o meno spasmodici ai presunti untori di turno, ai giornalisti, ai concittadini. Frustate inflitte alla ragionevolezza e al buon senso, all’amor civico. E a quello proprio.

Un esercizio a tratti osceno, che ha celebrato il proprio “trionfo” soprattutto nelle stanze del web, sponda social: questa laguna singolare, in cui finanche un mulo potrebbe annusare l’opportunità di un (soltanto apparente) momento di gloria, nel maldestro tentativo di atteggiarsi a purosangue.

La sensazione é che, oltre al Covid-19, un altro virus abbia trovato dimora tra le maglie della nostra comunità: la vocazione alla faida costante, alla straripante esigenza di reperire ”hic et nunc” un bersaglio, un capro espiatorio; una sagoma contro cui puntare indici e baionette virtuali. Il monumento al pressappochismo.

Una rotta turpe quanto pericolosa. Perché è proprio su tali binari, su tali correnti che galoppa la divisione: questo fante sciagurato in groppa al cavallo della psicosi.

Un fangoso sentire, fomentato spesso da conflitti interiori irrisolti, dalla paralizzante allergia alla documentazione sistematica e al sistematico studio di logiche e cause, dai tafferugli della frustrazione. Gargarismi da mercato rionale.

E un certa perplessità pare permeare oggi pure i più scalmanati fan degli slogan a tinte arcobaleno. Perché quell’ “andrà tutto bene”, al momento, suona ancora come una tromba asmatica in un coro di angeliche voci. Non fosse altro per il fatto che più di qualcosa é già andato storto. E di brutto.

Certo, prima o poi dall’incubo dovremo pur svegliarci: ma siamo sicuri che il “prezzo” pagato, alla fine della fiera, non renderà aspro il sapore della felicità agognata e finalmente acquisita?

Oltre all’augurio di un futuro – più o meno prossimo e più o meno roseo – possibile, bisognerebbe forse comprendere come nulla andrà bene davvero se ognuno di noi non farà la propria parte. Nessuna delega, nessuna esitazione.

Per virare in maniera incisiva e approdare alla fatidica vista di altri lidi, altri epiloghi e altre speranze, c’è bisogno stavolta del contributo di tutti. Nessuno escluso.

Dunque tendiamo il braccio per sorreggere insieme la torcia dell’identità, dello spirito comunitario, dell’amore per questa terra ch’è nostra madre.

Perché prima o poi, la primavera – quella vera – tornerà. Ci saranno raggi tiepidi a scaldare cuori e umori piagati dalla sofferenza, dal tedio di questi giorni. La primavera tornerà. E vedremo ancora i fiori sbocciare, farsi strada tra i rovi; vedremo il tempo profumare di nuovi germogli: saranno i migliori, perché irrorati dal pianto.

Ma adesso tocca a noi risplendere e servire, trovare il coraggio di cominciare una nuova alba. Insieme. Tocca a noi lenire le piaghe del momento, vestirne il sudario d’inquietudine. Tocca a noi discendere nell’Ade, da uomini, per uscirne da eroi.

Proviamo, dunque, anche nel silenzio di una fertile solitudine a vincere la tentazione della leggerezza, dell’egoismo, della zuffa da tastiera, della superficialità. Proviamo a scuotere la nebbia interiore che spesso ci attraversa, a squarciare ogni esitazione. Proviamo a essere luce.

La voce del fato oggi ci chiama a essere impavidi, a divenire la greve bellezza di un mai così rimpianto “Teco Vorrei”.

Con orgoglio e fierezza, seppur scalfiti dalla prova, abbracciamo ora la nostra croce. E trasciniamola avanti; passo dopo passo, di vicolo in vicolo, lungo il labirinti del dramma. Fino alla fine, fino all’ultimo gradino del Golgota. Perché è lì che moriranno le tenebre, é lì che ogni sacrificio sarà purificato. É lì che risorgeremo. Ognuno di noi ha bisogno di essere salvato. 

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