Il vostro lockdown/1

La quarantena di Vito – La verità è che non vedo l’ora di tornare libero

Oltre la retorica, le ipocrisie social, gli slogan facili: la libertà è la base della vita, dobbiamo ammetterlo, come racconta un cittadino "qualunque", Vito Mancini, residente a Termoli, in questo "diario" onesto sul lungo periodo di "reclusione"forzata. Un contributo per provare a chiederci chi siamo, e cosa vogliamo, al di là della paura del Covid.

La mia quarantena: La rubrica di Libero si intitola così perché siamo ancora dentro questo incubo ma io voglio provare a guardare avanti, sperando di essere già dentro la cosiddetta fase 2 e provare a lasciare su questo foglio ciò che invece mi è restato dentro e che porterò sempre con me, anche quando questa fase storica sarà solo un lontano ricordo.

Roma, stadio Olimpico, 22 febbraio 2020, Italia Scozia di rugby; mentre vado allo stadio dal mio Molise, la radio parla di Lodi e di Codogno, ho addosso la sensazione che comunque finirà presto mentre mi godo i colori ed i canti di una giornata limpidissima di primavera romana di festa e di sport vero.

Al ritorno, però, le notizie si rincorrono e avverto che qualcosa sta cambiando, quella nitida sensazione che si ha ogni volta alla fine di una festa quando ci si interroga sulla precarietà dell’esistenza, sapendo che forse avrai altri momenti belli ma quelli, quelli appena vissuti non torneranno più.

I giorni passano e cadono le prime certezze, ciò che avevi dato per scontato inizia a vacillare, il primo morto in Italia, le prime terapie intensive, il primo contagio nella Regione, il primo contagio nella tua città, il primo conoscente che prende questo maledetto virus, l’ospedale del luogo in cui vivo chiuso a tempo indeterminato perché hanno scoperto un focolaio importante.

Tutto questo mentre nel mio Molise, agli inizi di marzo, la vita ed il lavoro sono ancora quelli di sempre, avverti tuttavia che il Mostro si avvicina e che non è vero che andrà tutto bene ma sai già che andrà sempre peggio.

8 marzo 2020, ultima festa in famiglia prima dell’Apocalisse, a tavola si parla della grande fuga dal Nord nella notte, sembrano ancora immagini lontane, si critica il Governo per le sue incapacità sperando che la nostra Terra, isolata da sempre e da sempre non conosciuta, potrà essere risparmiata dal Covid 19.

Il giorno dopo però mi guardo intorno: le prime persone con la mascherina, le scuole chiuse, l’Università chiusa, i protocolli di sicurezza al lavoro, i primi sguardi di paura e di diffidenza, comprendo che ormai ci siamo tutti dentro.

Faccio la mia ultima corsa il 9 marzo e, passando davanti all’ospedale chiuso ho la certezza che la Paura è arrivata e che la Libertà sarà presto solo un lontano ricordo.

Arriva il lockdown con le relative autocertificazioni, mi accorgo, giorno dopo giorno e senza colpo ferire, di dover rinunciare passo dopo passo ad una piccola quota di libertà individuale, entro in smart working, esco di casa solo per ragioni alimentari e di sussistenza.

Le giornate vengono scandite dalla redazione di un diario della quarantena scritto in portoghese, dalle conferenze stampa del Capo della Protezione Civile che scandisce, con la colonna sonora di lugubri rintocchi, il triste conteggio dei deceduti, dalla lettura di Manzoni e di Saramago e dalle immagini dei camion militari che a Bergamo portano via le salme di chi non è sopravissuto al Mostro.

La notte passa con le sue angosce e con poco sonno, con l’incubo ricorrente di avere la testa nel caschetto dell’ossigeno, con gli interrogativi sul futuro e la consapevolezza di essere piombati in un nuovo Medioevo o nel 600 della peste così mirabilmente descritta dal Manzoni.

Non rinuncio alla mia attività fisica, invento un piccolo circuito di 1 km non allontanandomi mai per più di 200 metri da casa, lo percorro più volte con una camminata veloce rigorosamente in solitaria, ascolto la mia musica o un libro e mi allontano dal momento e, per il tempo necessario della camminata, mi sembra di essere ancora in piena normalità.

Nel mezzo dell’Apocalisse scopro in me una vena anarchica che mai avrei pensato di avere perché poi va bene la chiusura per la Salute Pubblica, vanno bene il distanziamento sociale ed i dispositivi di protezione individuali, ma comincio a detestare le sanzioni ingiuste irrogate da inflessibili tutori dell’ordine che sembrano appropriarsi, a volte, di poteri mai ceduti dalla collettività.

Non sopporto più l’ipocrisia e la sicumera degli ultras da tastiera che passano il loro tempo a scrivere sui social di restare a casa e a dire che così andrà tutto bene mentre tutto continua ad andare malissimo e non certo per colpa del runner solitario o del signore che prende 10 minuti il sole in spiaggia.

Acuisco la mia misantropia, già rilevante di per sé, con l’uscita soft dai social, ricettacolo ormai di cori da stadio delle diverse fazioni politiche e luogo privilegiato dell’estrinsecarsi della sindrome di Stoccolma per quell’avvocato pugliese così affascinante e così rassicurante, cori scritti tra l’altro in un pessimo italiano, cori che più che convincere fanno rabbrividire e ti fanno comprendere di come sia peggiorata la scuola italica dai tempi della mia maestra, fascista ma preparatissima a quelli più recenti dei moduli e della buona scuola.

La mia quarantena…L’unico desiderio è che finisca presto per poter incontrare di nuovo la Bella che guarda il mare ovvero la Libertà, la Libertà nel sentire e riassaporare proprio l’odore del mare, la Libertà nel tornare tra i miei monti, sdraiarmi al fresco sull’amaca ed ascoltare il silenzio della Natura, la Libertà nel fare fatica e godermi finalmente una corsa, la Libertà della normalità del quotidiano e dell’ozio non forzato, la Libertà nel leggere un libro per il piacere di farlo e non per impegnare il tempo che scorre.

Non esiste vita senza Libertà, la vita senza Libertà è solo uno spazio da riempire, averla e possederla ti consente di superare i limiti spazio-temporali e di avvicinarti all’immanenza universale.

Mentre cammino per l’ennesima volta intorno al mio palazzo risuonano negli auricolari le parole del grande poeta genovese Fabrizio De Andrè: “Di respirare la stessa aria di un secondino non mi va perciò ho deciso di rinunciare alla mia ora di libertà”.

 

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