Il lavoro sul campo in malattie infettive

La resistenza nel reparto che cura il Covid. L’infettivologa Alessandra Prozzo: “Questo virus è un rebus, ma oggi sono fiduciosa”

La sperimentazione farmacologica, la riorganizzazione dell’unico reparto di Infettive del Molise, l’isolamento domiciliare e il lavoro sul campo, tra incognite e stimoli. INTERVISTA all’infettivologa Alessandra Prozzo, unica in Molise a occuparsi di Hiv e a poter dire che “negli ospedali venti anni fa abbiamo visto di peggio”, che racconta il Covid nella nostra regione, quello che sta accadendo ai pazienti e il lavoro di squadra contro l’avanzata dell’infezione.

Alessandra Prozzo non aveva nemmeno trent’anni quando ha preso servizio al Cardarelli di Campobasso. Dal 1° agosto 1999 è dirigente medico nel reparto Malattie Infettive, l’unico della regione. Oggi è “famosissimo”, come avviene nel resto d’Italia: il Covid ha modificato drasticamente la percezione comune dell’importanza di disporre di un reparto del genere, deputato al ricovero e alla terapia dei malati con infezione da Sars-Cov2. In questo momento di emergenza può contare su circa 30 posti letti grazie all’ampliamento strutturato su tre piani, ma fino all’anno scorso con il Pos (piano Operativo sanitario) 2015-2018 di posti ne aveva due.

“In realtà – spiega la dottoressa Prozzo – siamo stati declassati, al pari di quanto successo in moltissimi altri ospedali, da Unità Operativa complessa a valenza dipartimentale. Siamo passati da 18 posti letto a 2 posti, poi la scorsa estate l’allora direttore dell’ospedale ha riattivato altri 8 posti letto con una procedura interna e siamo passi a 10 letti”.

Una “fortuna”, perché se così non fosse stato le difficoltà logistiche per una riattivazione in emergenza sarebbero state infinitamente superiori. Un reparto di Malattie Infettive è diverso da tutti gli altri perche è strutturato con l’area “filtro” e diviso in due parti: una pulita e una sporca, dove si accede con tutti i dispositivi di protezione individuale necessari: il personale di Infettivologia, che ha contatti ravvicinati con i pazienti infetti, ha una “divisa” particolare e particolarmente ingombrante della quale si deve spogliare ogni qualvolta esce dalle camere dei malati. Camere che, anche queste, sono diverse da tutte le altre perché a pressione negativa, con un sistema di circolazione dell’aria “blindato” che evita la diffusione del contagio. Al Cardarelli ce ne sono tre.

Dottoressa Prozzo, quanti siete a lavorare nel reparto?

“Fino a poche settimane fa eravamo 4 medici, 6 infermieri oltre alla caposala e a una infermiera dedicata al day hospital. Con l’emergenza sono state distaccate in malattie Infettive altre due dottoresse, entrambe infettivologhe, in servizio presso Medicina e Pediatria e una collega specializzanda dell’ultimo anno a Pavia-Varese, molisana di Campobasso, con un contratto libero-professionale.

Ci spiega bene quali sono i sintomi del Coronavirus che voi riscontrate sui pazienti molisani?

“Comincia con una sindrome simil influenzale, i sintomi principali che abbiamo riscontrato sono febbre, una tosse stizzosa, mialgie, cioè dolori diffusi. Nella nostra esperienza molisana nella quasi totalità dei pazienti abbiamo riscontrato la diarrea, sintomo molto comune, e incapacità di sentire i sapori. La malattia però può essere completamente asintomatica, paucisintomatica, cioè con pochi sintomi come febbricola e qualche doloretto, magari un po’ di tosse che può durare anche solo due o tre giorni. Ci sono pazienti che accusano un malessere più marcato e non ce la fanno neanche ad alzarsi dal letto, oppure pazienti che arrivano alla polmonite grave e al distress respiratorio”.

Uno spettro molto ampio, che rende complicata la diagnosi in assenza del tampone?

“Per fortuna qui il tampone non ha tempi lunghi: riusciamo ad avere i risultati in 24 ore sebbene la metodica non sia semplice né veloce. Il tampone è un test di biologia molecolare, per il quale a Campobasso c’è un ottimo laboratorio. I colleghi biologi stanno facendo un lavoro straordinario e riescono a darci dei risultati in tempi rapidissimi. È chiaro che lavorare in una giornata, dal mattino presto fino a tarda sera, 250 tamponi in media significa assegnare delle priorità”.

Dunque non sarebbe una opzione possibile quella dei tamponi a tappeto?

“No, occorrerebbero altre strutture e altri professionisti”

Lei ha fatto il tampone?

“Sì, l’ho fatto come tutti i miei colleghi. Gli operatori sanitari devono farlo, a garanzia degli altri. Questo anche se molti colleghi, non qui, hanno lavorato anche con il tampone positivo perché asintomatici. Ma non ci si poteva permettere di perdere forza-lavoro. Questo fa comprendere davanti a che tipo di emergenza ci siamo trovati”.

Una emergenza alla quale ha contribuito anche non sapere bene quali farmaci avrebbero risposto meglio?

“Le terapie sono tutte sperimentali. Usiamo farmaci antiretrovirali, con i quali abbiamo grande dimestichezza perché li utilizziamo dal 1996 per l’infezione da hiv e li abbiamo riconvertiti in farmaci per Covid. Poi gli antimalarici, fondamentali nella prima fase. E infine i biologici. La loro combinazione in base al paziente fornisce risultati importanti ed è una bella soddisfazione per noi infettivologi”.

Sappiamo che non esiste al momento un vaccino, ma questa infezione può essere fermata con i farmaci?

“L’obiettivo della terapia fatta a domicilio è proprio quello di fermare l’infezione nella fase in cui ci sono pochi sintomi, interrompendo l’avanzare della malattia con un trattamento farmacologico adeguato. Molti pazienti rispondono al trattamento a domicilio, molti pazienti invece guariscono spontaneamente a prescindere dal trattamento”.

La guarigione è un fatto soggettivo?

“Sì, così come è molto soggettivo il decorso quando la malattia diventa seria, e purtroppo lo abbiamo visto con i tanti che non ce l’hanno fatta”.

Chi può ammalarsi?

“Tutti possono ammalarsi. Purtroppo questa è una infezione che non colpisce esclusivamente le persone fragili, colpisce tutti. Sicuramente le persone che hanno comorbidità sono a maggior rischio di malattia severa. Ma il fatto di non avere patologie pregresse e di essere in una fascia di età intermedia non mette al riparo dal rischio di avere una infezione grave”.

Gli anziani sono in pericolo maggiore?

“Gli anziani sono i più fragili, ma noi abbiamo ricoverato anche tanti pazienti giovani”.

Ci sono altre malattie infettive in cui gli asintomatici sono in grado di trasmettere l’infezione?

“L’Aids, che però una modalità di trasmissione differente. Il Covid è una di quelle infezioni in cui l’asintomatico può trasmettere il virus, e questo spaventa”.

Di Covid si può morire, è anche questo che spaventa. Sentiamo parlare di polmoniti terribili, devastanti…

“La polmonite da coronavirus è una polmonite virale e può essere devastante, come peraltro può accadere anche con la polmonite data dal virus dell’influenza. Col Covid oltre alla polmonite si possono avere una serie di altre manifestazioni come la tromboembolia polmonare perché c’è una attivazione abnorme del sistema immunitario e dell’infiammazione, e questo provoca una tempesta citochinica il cui effetto si traduce in una trombosi diffusa soprattutto a livello polmonare. Dunque non è solo la gravità della polmonite virale, ci sono anche altre manifestazioni a livello polmonare legate alla malattia Covid”.

Queste sono cose che sapevate dall’inizio della epidemia? Vi erano chiare, come medici?

“Noi, come tutti, stiamo facendo esperienza sul campo e ci confrontiamo continuamente con i colleghi di altre realtà. Per esempio i colleghi della Lombardia, che hanno avuto il maggior numero di pazienti e forse hanno l’esperienza maggiore, sono molto solerti nel condividere anche le impressioni di quelle che sono le esperienze dirette. Stiamo facendo quello che sta facendo tutto il resto d’Italia e probabilmente tutto il resto del mondo in questo momento: l’esperienza sul campo”.

Al di là della drammaticità della situazione il lavoro sul campo è stimolante? Non mi fraintenda, voglio dire dal punto di vista scientifico.

“Lo è moltissimo. Personalmente la stessa cosa l’ho vissuta con l’Hiv. Ed è bella la condivisione dei risultati, che oggi è facilitata dalla tecnologia dei social. Come sempre le epidemie fanno venire fuori il meglio e il peggio, è inevitabile”.

Il peggio qual è?

“Questo non lo dirò. Voglio concentrarmi sul meglio, e garantisco che l’ho visto venir fuori da tante persone e da tante situazioni”.

Sicuramente, a cominciare da voi che siete in prima linea. Ma c’è stato un momento in questa emergenza in cui avuto un pensiero di resa, ha pensato di non farcela?

“Non c’è stato perché l’adrenalina è a mille in queste situazioni, non pensi che non ce la puoi fare. Sai che ce la farai”.

Anche davanti alla prospettiva di turni di lavoro disumani, della paura di dover affrontare un numero indefinito di casi?

“Lo fai lo stesso, lo fai. Abbiamo avuto un momento particolarmente difficile prima che arrivassero i colleghi a darci una mano, quando abbiamo fatto dei turni massacranti. Ma non abbiamo mai pensato di non farcela”.

Perché parla sempre al plurale, dottoressa?

“Perché questo è un lavoro di squadra, e mi fa piacere sottolinearlo. In questa emergenza ognuno ha fatto e continua a fare il proprio lavoro per quello che è il suo ruolo. In azienda (Asrem, ndr) credo si sia lavorato molto bene, magari qualche errore c’è stato ma sarebbe stato inevitabile il contrario. Siamo tutti impegnati per un obiettivo comune, dal biologo alla direzione strategica a ogni singolo operatore sanitario. E’ un lavoro di squadra, appunto, e la squadra sta funzionando”.

Come giudica il lavoro della Asrem?

“Un buon lavoro, abbiamo avuto sempre risposte tempestive ed efficienti. Quando dico che il risultato è merito di tutti mi riferisco a tutti, dal direttore generale all’ultimo anello della catena. E anche ai cittadini che hanno fatto donazioni fondamentali, permettendoci di acquistare attrezzature medicali necessarie fino a chi ci ha regalato la macchinetta del caffè. Sembra banale ma non lo è: anche questo diventa prezioso in una situazione così”.

Abbiamo tutti visto le immagini della partenza con missione italiana dal Molise dei due pazienti di Bergamo guariti e tornati a casa. E’ stata una soddisfazione?

“Erano arrivati in condizioni disperate ma ce l’hanno fatta, hanno trascorso tre settimane in intensiva, una settimana in sub intensiva e alcuni giorni da noi in reparto, e sono guariti. Certo, è stata una bella emozione, come peraltro succede quando i nostri ricoverati vengono dimessi, specialmente quelli che sono stati particolarmente male, per i quali i timori che non potessero farcela erano grandi”.

Aereo bergamaschi

Quando e perché viene dimesso dall’ospedale un malato di Covid?

“Le dimissioni di un paziente possono avvenire non solo quando è guarito dall’infezione secondo i due tamponi che vengono fatti a distanza di 24 ore e che certificano la negativizzazione, ma anche quando il paziente è guarito dal punto di vista clinico e non virologico e può proseguire l’isolamento a casa. Questo a condizione che abbia la garanzia di non avere contatti con altri, quindi un bagno e una camera a uso esclusivo e zero contatti con altri familiari o inquilini”.

Quando si guarisce dall’infezione si acquisisce quella che viene definita la patente di immunità?

“Questa è una domanda difficile, anche se mi rendo conto che è quella per la quale tutti vogliono una risposta. Ma con onestà devo rispondere che non lo so. Non è possibile dirlo. Noi possiamo dire che il paziente è virologicamente e clinicamente guarito quando non ha più i sintomi dell’infezione e in presenza di 2 test molecolari negativi fatti a distanza di 24 ore l’uno dall’altro. Non sappiamo ancora però se gli anticorpi dati dall’essere venuti a contatto con l’infezione siano neutralizzanti del virus. Non è detto, non è scontato e basta pensare all’hiv. Non si può dire pertanto che aver contratto il virus equivalga a essere immuni, è un discorso ancora troppo aperto a mio avviso”.

Nella sua esperienza di infettivologa ha mai visto qualcosa di simile al Covid?

“Se si riferisce alla portata della malattia, al suo impatto rispondo di sì, perché l’hiv degli anni Novanta è stato devastante e inoltre in quel caso non c’era nessuna possibilità di sopravvivere, quindi è stato peggio da un punto di vista clinico e umano, per la ghettizzazione dei pazienti. E’ stata una esperienza che mi ha segnato profondamente sia come medico che come persona”.

La Sars, la Mers, l’Aviaria degli ultimi decenni non si sono minimante avvicinate alla Sars-Cov 2.

“Sono infezioni con la stessa modalità di trasmissione ma sono state fortunatamente contenute in tempi molto rapidi, cosa che non è accaduta col Covid. Questo virus ha una capacità di trasmissione enorme ed è evidente che con questa caratteristica l’epidemia dilaghi in tempi rapidissimi. Inoltre è un virus per l’uomo completamente sconosciuto e questo dà il suo enorme contributo alla diffusione dell’infezione. I virus hanno questa capacità”.

Proprio perché i virus hanno questa capacità e l’umanità è sistematicamente in pericolo, come mai in Italia e anche in Molise le Malattie infettive sono state così tanto ridimensionate, limitate nei posti letto, sacrificate in generale?

“Se volessi far polemica direi perché non pagano. Ma non voglio dire questo, e quindi rispondo riportando quello che è accaduto: negli anni passati molti ricoveri in Malattie Infettive erano comuni agli internisti, come la polmonite, e questo ha fatto sì che si potesse pensare di ridurre il numero di letti necessari in Infettive, i cui posti erano destinati a curare tubercolosi polmonare, meningite da meningococco, eccetera. Questo da un lato. Dall’altro a mio parere si pensa sempre che le malattie infettive siano finite”.

In che senso, finite?

“Si ritiene, erroneamente e ciclicamente, che siano scomparse. Poi però viene fuori l’Hiv, viene fuori la Sars, arriva il Covid. Le malattie infettive difficilmente potranno finire, ne sono convinta e non sono certo la sola. Guardi, il rischio lo abbiamo corso anche qualche anno fa con la suina e l’aviaria, fortunatamente sono state contenute ma potevano dilagare alla stessa maniera in cui è dilagato il Covid”.

Quindi ora una priorità dovrebbe essere quella di non tornare a ridurre i posti di Infettive negli ospedali, giusto?

“Infatti, ma chiaramente non dipende però da noi infettivologi. Mi auguro che l’approccio possa cambiare, che l’Italia non abbia la memoria corta dopo questa epidemia”.

Come sostiene il professor Galli…

“Certo, lui che ritengo essere uno dei più grandi infettivologi che abbiamo in Italia sa bene quello che dice, ha vissuto il periodo dell’Hiv, quei terribili anni Novanta in cui sono stati ampliati i reparti di infettive, assunti medici, biologici, tecnici per far fronte all’emergenza. Ma nel momento in cui fortunatamente si è avuta una svolta dal punto di vista terapeutico siamo andato mano mano riducendo tutto. Non dovremmo ripetere gli errori del passato”.

E a Campobasso?

“Anche qui, come dappertutto. Se lo scorso anno non avessimo avuto la possibilità di portare a 10 i nostri 2 posti letti, per riorganizzare l’ospedale nella fase di l’emergenza avremmo faticato molto di più e avremmo avuto bisogno di molto più tempo. Ma i virus non aspettano noi. Consideri che ci sono stati momenti, nelle scorse settimane, in cui in Infettive c’erano fino a 32 ricoverati”.

Malattie infettive cardarelli

E’ cambiato l’approccio delle persone verso la figura dell’infettivologo?

“Questo non l’ho percepito. Ho invece sentito molto l’attenzione da parte di tutti gli altri colleghi, che sono stati e sono molto solerti nel cercare di capire se abbiamo bisogno di qualcosa. Personalmente poi posso aggiungere di aver ricevuto molti messaggi di incitamento e solidarietà da parte di persone che conosco e di pazienti che seguo cronicamente per altre cose.”

Non teme di essere contagiata?

“Il pensiero che possa succedere c’è sempre, specialmente vedendo tanti colleghi che hanno contratto l’infezione. So che è un rischio, non sono indifferente a questo pensiero. Ma non posso farmi sopraffare, altrimenti dovrei smettere di fare questo lavoro”.

Cosa significa indossare ogni giorno tutti quei dispositivi di protezione con i quali vi vediamo imbrigliati?

“Tuta, guanti doppi, mascherina, visiera sono tutti strumenti indispensabili nel momento in cui si visitano i pazienti. Non è piacevole, indubbiamente. E’ anche faticoso lavorare così, ma non esiste una alternativa. A soffrire sono soprattutto gli infermieri, che ricordo sono i più esposti”.

La mascherina chirurgica è utile?

“Tutti dovrebbero uscire in questo momento con la mascherina chirurgica e non con le mascherine Ffp2 o Ffp3, che servono esclusivamente in ospedale e si devono utilizzare quando si visitano i malati”.

Perché?

“Sono mascherine che filtrano l’aria in entrata. Se la utilizzo al supermercato per esempio e magari ho l’infezione beh, è intuibile cosa possa accadere. Non è solo un mio parere che la popolazione debba utilizzare le mascherine chirurgiche, che sono filtri di barriera”.

Per quanto tempo secondo lei dovremmo uscire con la mascherina e mantenere il distanziamento sociale?

“Non credo che sia un momento vicino. Pur essendo ottimista sul fatto che il virus scomparirà, sono un po’ preoccupata da quello che può succedere dopo il 4 maggio, ho timore che con i dati confortanti dal punto di vista delle nuove infezioni e con questa riapertura che dovrebbe essere graduale si possano vanificare gli sforzi cancellando con un colpo di spugna tutte le raccomandazioni fatte nel corso di questi due mesi, rischiando una seconda ondata epidemica. Comprendo perfettamente che la gente non ne può più di stare in casa, e lo dico io che esco tutti i giorni per andare a lavorare e mi sento fortunata per questo”.

Importante mantenere attive le misure di sicurezza, dunque.

“Nel modo più assoluto. Ricordiamoci che siamo stati fortunati qui in Molise, ma che non possiamo pensare che vada tutto bene. Bisogna tenere duro”.

Diceva però che è fiduciosa che il virus scomparirà…

“Si, io sono fiduciosa. Da un punto di vista scientifico tutto il mondo sta lavorando per mettere su un vaccino che però non è scontato si trovi, l’Hiv ce lo insegna. Ma comunque si sta lavorando insieme per contrastare questa infezione. A prescindere da questo, ho la sensazione, in parte anche restituitami dal fatto che stiamo assistendo a un numero sempre maggiore di pazienti che non necessitano di trattamenti intensivi e non si aggravano come all’inizio della epidemia, che il virus perderà forza e scomparirà. Ma devo precisare una cosa…”

Dica

“Non è una sensazione scientifica”.

Se a parlare fosse uno di noi non ne terremmo conto per un solido principio di cautela che impedisce di riferire valutazioni dei tuttologi da strada o da web. Ma Alessandra Prozzo è un medico, con una esperienza sul campo affinata da anni e anni di corsia, pratica e studi. Le sue sensazioni, anche se per sua stessa ammissione “non scientifiche”, hanno tutto un altro valore.

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