Alla fine nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale Cardarelli di Campobasso ci siamo entrati. Lo abbiamo fatto per osservare, guardare negli occhi, scrutare e capire quello che eravamo riusciti a percepire soltanto rimanendo all’esterno del nosocomio in attesa che un qualche operatore, terminato il turno, si intenerisse finanche davanti alla nostra insistenza e scegliesse di accennarci cosa si vive lì dentro. Dove per entrare devi bardarti e dove per lavorarci devi possedere competenze specifiche, alta professionalità, audacia da vendere e spirito di servizio. E nella Terapia Intensiva del Cardarelli queste risorse non mancano. Anzi.
Anche qui i pazienti dall’inizio della pandemia si sono moltiplicati. Ma al Cardarelli sono stati in grado di far fronte non soltanto alla richiesta dei molisani bensì di accogliere anche pazienti di Bergamo, prestando quindi solidarietà, preparazione e abilità ad un Paese in ginocchio che ci ha resi tutti uguali. Proprio la donna di Bergamo, che a Campobasso è ricoverata con il marito, venerdì 3 aprile è stata l’ultima ad esser dimessa dopo quasi quattro settimane di Rianimazione, per essere trasferita in Malattie Infettive.
Medici e infermieri, qui, lavorano tra le 12 e le 14 ore al giorno. Romeo Flocco, direttore del reparto, insieme al personale che dirige, rappresenta l’ultimo fronte di questa guerra contro il Covid 19. In Terapia Intensiva si arriva quando le speranze di farcela crollano improvvisamente, i polmoni non respirano più e il cuore si affatica perché manca l’ossigeno. Ed è qui che con settimane di lavoro multidisciplinare, attento, scrupoloso, rapido ma preciso, mai interrotto, quelle speranze alla fine i nostri medici riescono a riaccenderle fino a portare il paziente fuori dal tunnel.
Romeo Flocco ci accoglie proprio poco dopo aver firmato le dimissioni della signora bergamasca. In tanti anni di professione (e missioni) all’interno del suo reparto, siamo stati abituati a vederlo sempre tutto d’un pezzo, raramente propenso a slanci emotivi, rigoroso nell’esposizione dei fatti clinici, puntuale nelle sue risposte perlopiù sintetiche ma sempre di grande efficienza ed efficacia.
Questa volta incontriamo invece un professionista che nonostante la distanza di sicurezza, il camice, la cuffia, la mascherina che gli nasconde mezza faccia, non può camuffare occhi che – seppure naturalmente stanchi – sono carichi di energia ed entusiasmo. Esprimono, ancor prima che lui lo racconti, la gioia professionale e personale di aver dimesso in poche ore la terza paziente positiva al Covid pronta a passare dalla Rianimazione a Malattie infettive.
Dottor Flocco, come è la situazione?
“Come nel resto d’Italia nel senso che l’emergenza non fa distinzioni di sorta. Anche noi abbiamo iniziato i primi ricoveri dal 3 di marzo e da quel giorno non c’è stata più sosta. E la degenza per i pazienti nel nostro reparto è la stessa ovunque: lunga e complessa. Arriviamo a farcela dopo tre anche quattro settimane di trattamenti terapeutici, ma questa è la media internazionale”.
Quali trattamenti?
“Parliamo ovviamente di percorsi lunghi. Le procedura sul paziente Covid non si discostano molto dall’attività che facciamo solitamente sul paziento critico ma per altre cause. Soltanto che in questo momento specifico oltre ai protocolli standard adottiamo anche quelli per la sindrome del di-stress respiratorio acuto (Ards) che provoca una grave ipossiemia, refrattaria all’ossigeno-terapia e quindi bisognosa della cosiddetta ventilazione assistita. A questo si aggiunge l’applicazione degli antivirali che sono un po’ tutti a livello sperimentale perché questa pandemia, diffusasi in modo così rapido, non ci ha permesso di fare riflessioni per valutare l’efficacia di alcune terapie piuttosto che di altre. Quindi procediamo per step, con l’obiettivo di curare senza creare effetti collaterali”.
Effetti collaterali che con i protocolli della Terapia Intensiva potrebbero insorgere di frequente soprattutto nelle persone particolarmente anziane e più fragili?
“Sì. La terapia di rianimazione è invasiva e può quindi comportare problemi. Allora ha senso se – in base a degli indicatori stabiliti dalle società scientifiche di Terapie Intensiva e ad indicatori prognostici – possiamo realmente ottenere un risultato favorevole. In alcuni casi accade che questi indicatori, invece, ci dicano che la terapia potrebbe essere dannosa e allora è utile a quel punto praticare sul paziente un protocollo di supporto ma non certamente di tipo invasivo”.
Dottore, questa emergenza quanto pesa sotto l’aspetto professionale?
“Chi fa questa professione, chi opera nella sanità, sa bene che purtroppo queste emergenze anche se imprevedibili possono accadere. Quindi qui in reparto non manca volontà, abnegazione né entusiasmo. Sin da subito c’è stato chi si è piazzato in prima linea e ringrazio davvero tutti”.
Quanto pesa sotto l’aspetto umano?
“Anche sotto l’aspetto umano. Pesa perché tutti abbiamo una famiglia dalla quale vorremo tornare senza avere il timore di essere vettori di infezioni e sappiamo bene che purtroppo gli operatori sanitari sono quelli che hanno più possibilità di contrarre i virus; ma anche perché si stabilisce un legame intimo con i pazienti. Anche se i pazienti Covid sono sedati, hanno comunque la coscienza integra. Per cui nel momento in cui terminiamo un ciclo di terapia e riduciamo il livello di sedazione si crea quel legame intimo e speciale tra pazienti e operatore, che sì, ci commuove”.
Cosa dire ai molisani?
“Noi ce la mettiamo tutta ma è chiaro che dobbiamo farlo tutti ognuno per la propria parte. Quindi dico: non uscite di casa. Io ho una figlia a Milano, l’altra a San Francisco e anche a loro dico: non uscite di casa. Perché solo così evitiamo che il virus si diffonda, solo così guadagniamo chance per uscire prima e bene dall’incubo”.
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