Lettera al direttore

Ai giornalisti, maltrattati ma preziosi. “Siete voi che coi vostri occhi ci raccontate il fronte”

“Caro direttore,

sono il padre di un figlio o di una figlia (?) non lo specificheró pubblicamente (ma solo a lei in privato) perché in realtà al di là del mio ruolo specifico di padre, questa mia lettera è indirizzata a tutti voi, che come mio figlio (o figlia) siete professionisti del “perché” e a caccia di soluzioni da solleticare e analizzare. Affamati di racconti da rendere e oggettività da osservare e narrare.

Io, vecchio 80enne con oltre 60 di storia da poter raccontare a figli e nipoti, oggi mi ritrovo da oltre un mese chiuso in casa ad aspettare che siate voi invece a raccontarmi la storia di un mondo in ginocchio davanti ad un nemico che ha giocato di scaltrezza e ferocia con la vita di migliaia di persone tra cui molti miei coetanei.

Le scrivo perché in quanto padre di chi dei suoi “perché” d’infanzia e adolescenziali ha fatto poi una missione, mi sono ritrovato in questo lungo periodo di silenzio e solitudine, a riflettere sulla pericolosità della vostra professione spesso maltrattata e insultata. Ho scoperto che sì, l’informazione è un bene primario e che senza l’informazione forse, a quest’ora, sono sicuro racconteremmo numeri diversi pure nella conta di morti, ricoverati e contagiati.

Il mio omaggio a voi che omaggiate continuamente gli altri chiamati certamente in prima linea (e naturalmente a loro va pure il mio tributo), ma in un fronte la guerra la vince chi la fa, al di là delle posizioni.

E se la prima linea il nemico lo guarda dritto negli occhi, chi sta dietro è chiamato a sostenere il compagno di battaglia, a reggerlo se crolla, a stimolare nuove strategie se quelle messe in campo risultano inefficienti e inefficaci, a relazionare quando cala sera sulla nuova battaglia che si è consumata per capire falle ed eventuali utilità dell’azione portata a termine. Ecco come vi immagino: come quelli in “seconda”, insostituibile sostegno della “prima”.

E mi spiace oggi constatare che quanto siate importanti e quanto rischiate anche voi su un fronte complesso e imprevedibile, pochi ancora lo abbiano capito.

L’informazione per quanto sia bene primario continua ad essere considerato bene scontato. Non è così. Vorrei poterlo urlare e non potendo ve lo scrivo.

Mio figlio (o mia figlia) ad inizio pandemia, in una lunga e burrascosa telefonata durante la quale tentai di far prevalere le mie preoccupazioni di padre seppur vecchio, mi disse: “Papy, tu sei sempre stato ligio al dovere e rispettoso delle regole, sei per fortuna autonomo e capace da te, non avrai problemi a stare da solo e a fare diligentemente la tua quarantena. Ci hai raccontato per anni pezzi importanti della storia del Paese e di te come uomo e professionista. Ora permetti anche a me di raccontare questa nostra storia. Ci rivedremo e riabbracceremo quando tutto questo finirà ma tu nel frattempo seguimi in quello che osservo, ascolto, percepisco e scrivo. Criticami. Giudicami anche. Ma comprendimi e sostienimi”.

Eccole, caro direttore, le parole che mi hanno disarmato e sbattuto elegantemente in faccia un dato quasi scientifico: non avrei potuto rinunciare a sapere del Covid. E sapere significava anche sostenere un figlio (o una figlia) chiamata a correre dei rischi. Presente là dove scoppia il pandemonio. Armata solo di smartphone, volontà e coraggio nei posti meno sicuri, senza mascherina né guanti e con a disposizione per proteggersi solo il metro di distanza. Sotto le intemperie, con turni che hanno un inizio e raramente una fine. Per poi arrivare a crollare sul divano senza avere il tempo di arrivare a letto, senza un piatto caldo e buttando giù qualche panino, anche voi come altri in battaglia.

Ma senza aver guadagnato alcun riconoscimento, nessun omaggio, alcun tributo se non quello di una coscienza individuale (la vostra), certa – anche quel giorno – di aver sparato i giusti “perché”, di aver aiutato noi a guardare il fronte portando i vostri occhi dove vorrebbero stare i nostri, di aver raccontato da posti insicuri consentendo a noi di stare comodamente a casa senza bisogno di rischiare un attacco Covid e di aver dato – anche quel giorno – una preoccupazione in più a quel vecchio padre o a quella povera madre che seppure affranti hanno capito adesso che l’informazione è un bene primario.

Così, alla mia ormai veneranda età di quasi 80 anni, le mie giornate in quarantena trascorrono con il dito che scorre sul telefono o sul tablet perché la vista ormai è quello che è. Il dito che sfoglia i giornali on line capaci di aggiornarmi ogni volta che lo desidero. A seguire gli appuntamenti con i telegiornali che alterno tra locali e nazionali e poi l’unica uscita che mi concedo la mattina per acquistare il mio quotidiano di carta al quale sono legato da una storia indissolubile. E forse proprio da questo legame nasce la storia successiva che mi lega a voi giornalisti e che a voi oggi vuole rendere il dovuto omaggio per quello che fate: io vi capisco e vi sostengo.

Parole di un povero vecchio ma piene di stima e considerazione. E se per caso vedete mio figlio (o mia figlia) ditegli ogni tanto di #restare a casa.

Un caro saluto, affezionato padre e lettore”.

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