La gogna ai tempi del coronavirus

Facebook, la colonna infame

A Milano c’è un palazzotto nuovo, sorto all’angolo tra due strade del centro, e passandoci davanti chi alza gli occhi da terra o dal cellulare può ammirare una bella scultura moderna in bronzo che ricorda una colonna.

Una colonna infame, per essere precisi.

La colonna infame era una colonna vera e propria che era lì, al posto del palazzotto nuovo, fino alla fine del 1700. Ce la racconta Manzoni in un suo saggio e ci dice anche che era stata eretta dallo spavento.

Uno direbbe: ma come? Lo spavento mica erige colonne? Qualcuno si è mai eretto a causa di uno spavento? Come può, dunque, lo spavento erigere una colonna intera, lunga lunga e dura dura?

Può eccome. Perché lo spavento non è la paura.

Spavento e Paura non sono sinonimi.

La paura è sana e ci avverte dei pericoli, ci fa produrre più glucosio ed endorfine prima di una prova o di una gara; lo spavento invece ci pietrifica o ci fa scappare, perché è legato all’impreparazione e all’ignoranza del pericolo; lo spavento si lega con l’egoismo e la mera sopravvivenza.

Boccaccio, cinquecento e rotti anni prima di Manzoni, fa iniziare il suo Decamerone proprio durante una pestilenza e la descrive così: “Era con sì fatto spavento, questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile), li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero”

Lo spavento che ci prende e ci rende inumani, al punto da abbandonare i nostri stessi figli.

Passano Cinquecento e rotti anni e torniamo a Manzoni e alla storia della Colonna Infame. Se avete stomaci deboli, fermatevi qua: le immagini saranno dure.

Gian Giacomo Mora è un povero cristo che fa il barbiere a Milano durante l’epidemia di peste bubbonica.

Per sopravvivere durante quel tempo infame, si è inventato degli unguenti che, a suo dire, avrebbero curato le piaghe e i bubboni della peste. Se non addirittura a prevenirla, la peste!

Era talmente convincente che, tra una barba e l’altra, riesce a vendere un suo intruglio persino un commissario di sanità, che non era Toma ma aveva lo stesso talento per non capire cosa stava per accadere.

Una notte capita che una “donnicciola” vede un uomo ungere i muri della sua casa. Gli untori li chiamavano così per questo, perché ungevano i muri con intrugli di peste.

Nessuno aveva mai visto i batteri e quindi si pensava che ci fossero esseri umani diabolici che andavano in giro a fare ste cose di proposito per spargere la malattia.

Com’è come non è, sta donnicciola chiamata Caterina Rosa vede st’uomo ungere casa sua e chiama le guardie che arrestano il commissario Toma ante litteram, scoperto con le mani sporche di vernice nera, che passeggiava a pochi metri dalla casa unta.

Lo torturano, gli cavano un occhio con una pinza e lui confessa. Dicendo che l’intruglio gliel’aveva dato il povero barbiere Mora.

E così le guardie vanno da Gian Giacomo e gli trovano una bacinella con acqua e un fondo nero, probabilmente nient’altro che chinino, ma che loro decidono essere “smoiazzo di morto”. O almeno così scrivono nel verbale consegnato al giudice.

Gian Giacomo Mora viene arrestato e torturato finché non confessa. A lui l’occhio lo lasciano; ma gli tolgono sei dita dei piedi.

Alla fine del processo, durato meno di venti minuti, i due vengono condannati a morte; ma non subito.

Prima staccano pezzi di pelle con pinze roventi, poi mozzano la loro mano destra, poi gli spezzano tutte le ossa del corpo, una ad una, poi li torcono tra i raggi di una ruota e tirati fino al punto che i piedi gli saltano via dal corpo.

Gian Giacomo viene lasciato così, esposto al pubblico, per sei ore dopo le quali, finalmente, lo uccidono mediante taglio della gola.

Il suo corpo fu bruciato, la sua casa fu distrutta e al suo posto fu eretta una colonna, eccola qui la colonna, che ricordava il processo e le pene inflitte ai due “untori” come monito per gli altri cittadini.

La colonna infame.

Oggi la colonna non c’è più. Oggi Milano ha chiesto scusa a quell’uomo, all’umile barbiere, dedicandogli una strada in pieno centro come si fa con i re e i grandi patrioti.

Però oggi c’è facebook. La colonna infame dei tempi moderni, in cui si condividono audio, si processa, si scrivono sentenze e si espone e si dileggia il corpo dell’untore perché NOI CITTADINI DOBBIAMO SAPERE.

È sempre il frutto dello spavento, della miseria che ci fa segnalare movimenti sospetti nei nostri palazzotti moderni, che ci fa urlare di fronte a un possibile untore e vorremmo che fosse facile fermare i virus come fermiamo gli untori su facebook.

Ieri un giovane campobassano è stato “catturato” e messo alla gogna su facebook, con nome, cognome, indirizzo, numero di telefono. Sperando forse che questo gesto potesse allontanare il virus da noi e lenire il nostro terrore.

Eppure i virus se ne fottono del nostro spavento e ci vengono a prendere lo stesso; e agli untori, oggi come allora, non resta che confessare, dopo un occhio cavato a forza e prima di essere esposti sulla ruota.

 

 

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