Senso/77

Revenge porn, l’altro volto della violenza di genere

La reazione unanime della Camera che ha approvato un emendamento per questo tipo di reato -che consiste nella condivisione pubblica di immagini o video intimi tramite Internet senza il consenso dei protagonisti - è la misura della percezione, ormai diffusa, della gravità delle conseguenze derivanti da questa forma di violenza che possono risultare devastanti per le vittime. 

Il revenge porn o revenge pornography (tradotto come vendetta porno), di cui si è ampiamente discusso in queste ultime settimane per l’approvazione, il 2 aprile alla Camera, di un emendamento che prevede fino a sei anni di carcere e a fino a 15 mila euro di multa per tale reato, indica la condivisione pubblica di immagini o video intimi tramite Internet senza il consenso dei protagonisti. Le immagini immortalate da un partner intimo e con consenso della vittima o, in altri casi, senza che la vittima ne sia a conoscenza, vengono diffuse attraverso la rete implicando una gravissima forma di abuso psicologico, violenza domestica o abuso sessuale.

nicola malorni

Solitamente gli autori di questo reato effettuano l’upload (trasmissione di file ad un computer remoto) di materiale sessuale esplicito per vendicarsi dopo la fine di una relazione, ma talvolta intendono anche, semplicemente, distribuire pornografia senza il consenso delle vittime. Nel primo caso, la pubblicazione ha solitamente lo scopo di umiliare la persona coinvolta per ritorsione o vendetta. Essi diffondono le immagini accompagnate da sufficienti informazioni per identificare in modo chiaro la vittima (ad esempio nome e posizione geografica) e possono anche aggiungere link ai suoi profili social, indirizzi delle abitazioni o del posto di lavoro.

Il testo dell’emendamento al Codice Rosso contro la violenza sulle donne approvato all’unanimità il 2 aprile recita: «Chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e la multa da 5mila a 15mila euro».

Ma la stessa pena si applica anche a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o il video, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro danno. Questa estensione ha la precisa funzione di colpire il reato nella sua potenzialità virale, potendo interessare soprattutto i canali social dei protagonisti. In questo caso, se la diffusione avviene attraverso gli strumenti telematici o informatici, sono previste delle aggravanti per l’entità del danno che può derivare dalla diffusione virale dei contenuti.

Aggravanti sono previste anche se il reato è commesso nell’ambito delle relazioni affettive significative della vittima, ossia dal partner o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva. La pena, inoltre, è aumentata da un terzo alla metà se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza.

La reazione unanime della Camera a questa forma di violenza è la misura della percezione, ormai diffusa, della gravità delle conseguenze che possono risultare devastanti per le vittime. 

Conseguenze che, in alcuni casi, hanno portato al suicidio. Ricorderete a proposito il caso di Tiziana Cantone. Ripensando alla sua storia, come per moltissime altre forme di violenza, preoccupa molto il sommerso anche in questo ambito, soprattutto tra i giovani: è importante essere attenti a questa possibilità per contrastare le conseguenze devastanti che il silenzio e l’isolamento della vittima possono implicare; un intervento tempestivo ed efficace può salvare la vittima impedendole di subire i danni psicologici che il reato implica.

Tiziana, 29enne all’epoca dei fatti, nel 2015 viveva a Casalnuovo di Napoli, nell’hinterland napoletano. La cronaca riportava che era stata abbandonata dal padre una settimana dopo la nascita, una bella ragazza, un diploma al liceo classico, poi gli studi interrotti di giurisprudenza; un po’ pantera ma non volgare, palestrata, pare esagerasse col bere. Ad un certo punto incontra il suo fidanzato, un quarantenne, Sergio Di Palo, col quale ha anche convissuto durante l’estate del 2015, che, secondo la madre – Maria Teresa Giglio, 58 anni – l’avrebbe spinta ad avere rapporti con altri e a filmarli. Era accaduto più volte che filmassero i loro rapporti intimi, a loro piaceva questo, ma nell’aprile 2015, Tiziana accetta di fare sesso con altri ed in presenza del suo compagno. Non è chiaro entro quali limiti abbia agito «volontariamente e in piena coscienza» (l’espressione è dei giudici) anche nella diffusione dei video.

Dopo la diffusione attraverso i contatti di pochi amici, un primo video finisce su un portale hard raggiungendo in poco tempo moltissime visualizzazioni soprattutto nel napoletano, ma è solo l’inizio. La diffusione diventa virale e a contribuire al successo c’è che la vittima è riconoscibile con nome e cognome, la sua vera identità compare spesso nel titolo, è ben identificabile in viso.

Nei mesi successivi accade qualcosa di inimmaginabile: tanta è la distruttività umana che il potere dei social è in grado di slantentizzare. L’immagine della vittima diventa l’icona di pagine Facebook; è al centro di vignette, parodie, canzoni, fotomontaggi, addirittura vendita di magliette, tazze e gadget. Evito di approfondire ulteriormente gli esiti ulteriori di questo processo ritenendo di aver lasciato intuire al lettore il dramma che in pochi mesi Tiziana si trovò a vivere.

A seguire il trasferimento al nord, il cambio del cognome, un primo tentativo di suicidio e poi un secondo, l’iter giudiziario scaturito dalle denunce che aveva fatto contro gli stessi social network che ospitavano i video o li avevano ospitati. I soggetti implicati sono tanti: Facebook Ireland, Yahoo Italia, Google, Youtube, Citynews, Appideas, Alaimo, Ambrosino.

Difficile dire, dopo tutto questo, cosa abbia portato la giovane donna al suicidio. Auspichiamo che la norma recentemente approvata possa almeno in parte contribuire a reprimere queste nuove forme di violenza. Ma ci auguriamo soprattutto che il Paese possa più utilmente implementare le proprie azioni di contrasto soprattutto attraverso strategie di prevenzione del delitto a partire dalla Scuola.

Molto utili sarebbero ad esempio gli interventi di formazione per il personale della Scuola e di sensibilizzazione per studenti e genitori, promossi da equipe multidisciplinari (psicologi, assistenti sociali, avvocati) anche attraverso la collaborazione della polizia postale e la partecipazione di enti locali, servizi territoriali, organi di polizia ed associazioni locali.

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